Rat race

Running

Wednesday, July 25, 2012

L'uomo calvo (ritorno alla normalità...)

Sono tornato a casa di domenica sera. La mia città è più brutta del solito sotto la pioggia. Io mi sento più giù del solito. Entro nel mio appartamento e il suo buio tiepido mi sussurra le solite paroline dolci: "Bentornato padrone, fatto buon viaggio? Bentornato alla tua solitudine. A proposito, nessuno ti ha cercato."
Accendo la tivu e cerco in frigo qualcosa di ancora mangiabile. Pizza surgelata. Apparecchio per uno, tovaglietta, calice di vino, bicchiere per acqua, posate e piatto veri. Niente plastica. Bisogna avere rispetto per se stessi, bisogna amarsi. Spalanco la bocca del microonde e ci infilo la mia "margherita ricca come da tradizione".  Nel balconcino della cucina vive rigoglioso il mio piccolo orto di piante aromatiche, protette da mini-serra. "La pizza senza basilico è come una donna senza minne...". Frase tipica di Silver la puzza, Salvatore la puzza da Sciacca, un vero siciliano da commedia all'italiana, con gli occhi chiari e i capelli ricci, allergico all'acqua, ma sciupafemmine, amico della mia vecchia compagnia del liceo. La stessa di Joshua, l'ebreo, ora Joshua il calvo, anche lui coinvolto nel cammino di liberazione dalla scrittura. Tra due giorni mi ricapiterà di vederlo. Chissà. Non so se sperare o temere un altro incontro. Dovrò andarci comunque alla riunione. Ne ho bisogno. Non devo scrivere, non devo, anche se la tentazione è forte, non devo ricominciare, perchè so cosa accadrà dopo. Ricomincerà quello che era cominciato tanti anni fa e che mi aveva portato quasi alla follia. E non voglio più che accada. Ora c'è Julia, ora ho una vita.
Tanti anni fa, dopo l'università, vivevo in una casa molto più piccola di questa, un monolocale con bagno cieco e una finestra che si chiudeva con difficoltà, un divano letto mezzo sfondato e un tavolo di fortuna messo insieme con due cavalletti e un piano di scompensato spesso. Cucina, soggiorno, salotto, vista sul  palazzo di fronte. Cosa può volere di più un brillante laureato alla ricerca di primo impiego che si nasconde molto bene?  Soldi pochi, pochissimi allora e sogni grandi, come quello di diventare l'Hemingway italiano. Scrivevo racconti che nessuno leggeva, tranne gli amici e la ragazza di turno, vagavo tra un colloquio di lavoro e l'altro, mi svegliavo pieno di ottimismo ed andavo a dormire triste. L'aspetto peggiore e che mi stavo abituando a quella vita. e l'altro. Una sera, dopo una cena pantagruelica con gli avanzi dei due ultimi giorni, avevo voluto riordinare le idee per l'ultimo racconto su una bella risma di carta bianca che avevo rubato la settimana prima dall'ufficio della ditta Giangiacomo Sposini e Figli dal 1954 dove ero stato per un colloquio di lavoro. Era lì, in mezzo a tante altre e si vedeva che non aveva voglia di essere usata per fotocopiare fatture, protesti e conti. Non aspettava altro che essere usata per un sogno.  Io la accontentai: mentre la segretaria era in bagno afferrai la risma e la feci sparire tra le fauci della mia borsa vuota che portavo solo per darmi importanza. Tutto era andato per il meglio ed uscii soddisfatto da quell'ufficio anche se non avevo trovato lavoro.  Avevo cibo per la mia fantasia, avevo inchiostro, avevo idee e mi sentivo un pò felice. Mi ero rinchiuso nella bolla di luce della lampada del mio tavolo da lavoro ed avevo viaggiato nel buio per buona parte della notte.  Avevo attraversato un lago di silenzio interrotto solo da voci lontane di vicini come piccole luci che ne disegnavano le sponde.  Fuori un tram fuori sferragliava, i vetri della mia finestra tremavano spaventati. Tutti i miei pensieri erano diventati inchiostro, adesso l'inchiostro era finito. Tentai di ricaricarmi con un bicchiere di vino in busta, ma il suo gusto amarognolo in fondo alle fauci diede il segnale della fine dela navigazione. "Tutti in branda".
Non finii di alzarmi dal tavolo. C'era qualcuno nella stanza.  Non li vidi, avvertii la loro presenza. Non sapevo cosa fare: fuggire, urlare, parlare. Qualcuno dal fondo della stanza si muoveva verso di me entrando pian piano nelle zone periferiche della bolla di luce. Due paia di gambe, scarpe pesanti.  Due sagome apparvero ai lati del tavolo. Guardai prima l'uno e poi l'altro, avrei voluto dire qualcosa.  Invece rimasi muto, poi li riconobbi rimproverandomi di non averlo fatto  prima. I due protagosnisti dei miei ultimi racconti su una banda di spacciatori di Seattle erano nella mia stanza, ai lati del tavolo a notte fonda. Bud Hassinger e Dave Smear mi fissavano. Era chiaro, stavo sognando.  Mi rilassai mentre osservavo Dave girare i fogli che avevo riempito per leggerli.
"Non mi aspettavo una vostra visita" dissi massaggiandomi gli occhi e pensando che fosse strano provare sonno durante un sogno. Sbadigliai. Loro non risposero, Bud si guardava intorno stupito di essere lì. Hassinger era obeso, non molto alto, impacciato nei movimenti, con le braccia lontane dal tronco come in certi pupazzi per bambini , colorati e rotondi.  Mi colpirono le sue mani enormi, lunghe quanto il suo avambraccio e più larghe della sua faccia. Io non le avevo immaginate così. Questo era un segno inequivocabile che i personaggi di un racconto hanno bisogno solo di essere abbozzati, poi cominciano ad evolversi per conto proprio, seguendo sentieri misteriosi ed imprevedibili.  Smear invece era alto e magro, triste. Lunghi capelli biondi e sporchi gli coprivano in parte il viso mentre sembrava leggere ciò che avevo scritto.  Sapeva leggere o guardava i segni senza senso?  Era stranamente ben rasato. Sulla maglietta rossa una scritta nera "Rage against the machine", il nome di un gruppo hard-rock-punk e qualche cosa d'altro.  Non ricordavo più, era passato tanto tempo da quando ascoltavo la musica a tutto volume per non sentire altro.  Dalla cintura che a fatica teneva su un paio di pantaloni troppo larghi, partiva una catena d'orologio che si indovinava in un rigonfiamento della tasca destra.  Le  sue scapole erano due pinne di squalo che spuntavano aguzze da un  giubbotto militare. Avevo la triste impressione che quella schiena avesse familiarità con le cinghiate alcoliche di un padre fortunatamente poco presente.  "Sedetevi, prego...." dissi non essendo sicuro che mi potessero capire.  Li avevo immaginati americani, americani della West Coast, ma quello era un sogno, quindi mi avrebbero capito sicuramente.  Bud non era sicuro di aver capito bene, ma seguì ciò che fece Dave.  Prese una sedia bassa ed una volta seduto la sua faccia rotonda arrivava all'altezza del piano del tavolo. Dove prese uno sgabello come il mio.  Li guardai.  Ero in presenza di due disperati Don Chischiotte  e Sanco Panza, che mi guardavano a loro volta muti, aspettando una rivelazione dal loro creatore.  Sorrisi "Volete da bere?" Si guardarono sorpresi ed io cominciai a versare il vino in alcuni bicchieri di plastica che avevo preso con gesto felino dallo scaffale alle mie spalle.  Alzai il mio bicchiere e contento come non lo ero da tempo augurai "Prosit!".  Loro mi sorrisero senza capire ed alzarono i calici postindustriali.  Bevemmo insieme. "Dite un pò, giovanotti, che ci fate qui?" 
Li chiamai giovanotti perché sembravano molto più giovani di me. Bud non capì subito, aggrottò la fronte e stavolta Dave parlo con una voce sottile e lontana, immatura. "Non sappiamo....forse ci hai chiamato tu... non lo so....".

Thursday, July 19, 2012

Scusate, non lo farò più...

Scusate tanto, amici. E' l'ultima volta, giuro! Ma ditemi un pò voi, quante pagine dovrebbe scrivere uno di noi per descrivere l'aspettativa di felicità di Snoopy? Non aspettiamo anche noi mendicanti (ognuno di noi), lì accucciati davanti alla vita,  una manciata di felicità? Senza neanche sapere se sarà la felicità che sogniamo...
Buona giornata
B

Wednesday, July 18, 2012

Chi dei due?

Oggi mi sento esattamente cosi! "Come Snoopy o come Woodstock?" chiederete voi. Il bello è questo: non lo so!  Ah, la poesia dei Peanuts!!!

Thursday, July 5, 2012

L'uomo calvo (cene e cene e cene)

La mano me la lasciò lei. La cameriera anziana si piantò alle sue spalle dicendole qualcosa che non capii, ma il tono spiegò tutto. Il locale andava chiuso. Lei mi sorrise quasi scusandosi dell'intrusione, voltò la testa e sentii la sua voce un pò stizzita :"Oui, oui, tout de suite...".
Mi sorrise ancora, mi lasciò la mano e ci alzammo da tavola. "Oggi offre la casa...a domani!". Non era un invito, era un ordine. Sparì con il suo calice nella cucina del locale. Osservai i suoi fianchi per un attimo e provai una tremenda fitta di desiderio nel basso ventre. Mi voltai e incrociai lo sguardo della cameriera. Se avesse guardato un cane rognoso i suoi occhi avrebbero avuto un'esperssione più dolce. Da bravo simpaticone alzai il calice nella sua direzione per un brindisi muto, svuotai il bicchiere e solo il pensiero di non sporcare la mia giacca mi impedì di asciugarmi le labbra con la manica. Posai il bicchiere e uscii salutando in italiano. Fuori laserata di settembre era dolcissima, il traffico quasi inesistente. Mi chiesi se aspettarla o meno li fuori. "No, oggi no. Aspetta".  Mi sorrisi pensando alla saggezza che una vita difficile come quella che avevao vissuto sino a pochi anni prima può infondere. Mi allontanai a passo lento, mani nelle tasche, verso il mio hotel. Quello che accaddè poi è facile da intuire. Julia era, ed è, una donna corazzata. Ci volle tempo, fiori e una presenza costante e silenziosa. Le spiega il mio lavoro, ci raccontammo molte verità e qualche bugia, qualche omissione, ci tenemmo per mano molte sere. Il locale era suo, eredità di un padre simpatico e presente, e di una madre alcolizzata. Questo spiegava molto, anche il suo impegno nel continuare la tradizione di famiglia. Poi una sera mi invitò da lei, in un piccolo appartamento nello stesso stabile del locale, secondo piano, grande vetrata liberty, tanti libri, un grande divano bianco, e facemmo l'amore come se io avessi sempre fatto parte della sua vita e lei dela mia. Sono passati quasi tre anni, non uso casa sua quando sono a Parigi, prendo sempre una camera nel solito albergo. Viviamo cosi, legati l'uno agli occhi dell'altra, con le mani incollate appena possibile. Il mese prossimo verrà da me in Italia, dice che mi ha dato abbastanza tempo per nascondere mia moglie e i miei quattro figli e mi sorride.Non abbiamo mai parlato di avere figli insieme, o di avere una casa in comune. Lei ha il suo bistrot, io non ho niente se non lei e questa segreta angoscia di non riuscire più a scrivere una riga di un racconto o di una poesia. Ho smesso anche di leggere. Ho pensato ad una malattia, ad un distturbo neurologico, ad un tumore cerebrale. Appena possibile mi farò visitare. ma ho l'impressione di aver perso l'anima, ma sono sempre più sereno, forse è il prezzo della felicità. Adesso mi accontento di mangiare queste ostriche grasse, bere questo buon vino e  sorridere alla vecchia cameriera che mi odia.

Wednesday, July 4, 2012

L'uomo calvo (ho saltato un incontro)

Ho saltato l'incontro del giovedì. Ero a Parigi, per lavoro. Come ogni mese, da tre anni. Non mi è mancato. Julia mi ha riempito le braccia e non ho pensato a niente altro. Questa storia va avanti da due anni e mezzo. Forse perchè il mio francese fa schifo e il suo italiano è molto sensuale. Forse perchè doveva accadere tutto in questo modo. Comunque una settimana al mese a Parigi  non è male. La banca per cui lavoro ci tiene a far vedere di essere internazionale e manda me a bacchettare i soci francesi per dimostrare che bevono anche sul lavoro per fare delle cazzate cosi enormi. Devono bere per forza, e più bevono, più io me la spasso. Cosi ogni settimana, con la massima gentilezza, una solerte signorina, ogni settimana diversa, ma sempre fornita di tutto ciò che un maschio italiano arrapato, come pensano che io sia, può desiderare,  mi accompagna in un ufficetto al ventesimo piano di un grattacielo parigino e mi fa accomodare su una poltrona che comincio a consumare con il fondo dei miei pantaloni, mi porta una tazza di espresso italiano forte e una pila di documenti da esaminare. Li guardo appena, sorrido e comincia il gioco delle parti: loro mi forniscono dati falsi, io guardo fuori dalla finestra per una mezz'ora, alzo il telefono e chiedo di poter incontrare appena possibile il responsabile dei dati, un signore brizzolato e munito di baffi scurissimi, sempre abbronzato e dal portamento nobile. Non mi meraviglierei di vederlo arrivare con una giacca da caccia con i gomiti ricoperti di pelle, una doppietta sotto il braccio, circondato da una muta di cani ansimanti alla ricerca delle tracce olfattive di una lepre o di un cinghiale o di uno della servitù scappato con l'argenteria. E' un tipico uomo di paglia, messo li come parafulmine del mangiaspaghetti, cioè come  mio parafulmine. Accendo il mio computer portatile e in dieci minuti scrivo una piccola relazione il cui senso profondo si può riassumere con un termine inglese molto usato nel mio ambiente: bullshit. Stronzate. Se metà dei dati forniti fossero veri, la banca per cui io e i francesi lavoriamo potrebbe comprarsi la Cina.
Passerò il resto della settimana a verificare con loro quale sia la fonte dell'errore. Loro giustificheranno il proprio stipendio, io il mio e mostreremo al mondo che lavoriamo per evitare le brutte sorprese della crisi mondiale. Bullshit. Alle cinque uscirò dal grattacielo con tutti gli altri e andrò a bere qualcosa in un bistrot frequentato da tutti gli impiegati della banca e di altre banche vicine, il posto giusto dove crearsi una carriera o rovinarsela. Sorriderò, accetterò le solite battute, mi farò prendere per il culo per il mio accento. Tutto normale, in fondo per loro sono un povero diavolo mandato lì in punizione. Andrò via dopo un'oretta, e dopo tre fermate di metropolitana arriverò nella piazzetta dove si affaccia un ristorantino uscito da una pagina di Simenon, l'Ancienne Normandie, il locale di Julia. Entrerò e la cercherò tra i tavoli sempre affollati. Poi lei sbucherà dalla cucina con le braccia bianche piene di piatti colmi di pesce per i clienti abituali o importanti.  Mi guarderà appena, solo un mezzo sorriso mi farà capire che si è accorta di me. Arriverà Marie, la cameriera anziana, che lavorava già per il padre di Julia. Non mi sorriderà perchè pensa che voglia fregare la sua figlioccia, pensa che io sia un porco italiano. Ha ragione, in parte. Mi farà sedere ad un tavolo vicino al bagno, mi lascerà il menù che io non aprirò. Dopo mezz'ora  arriverà Julia con un piatto fumante, il piatto del giorno, e un calice di vino, quello della riserva speciale. Mangerò e aspetterò, guardandomi intorno, osservando i parigini mentre mangiano e si divertono, proverò a indovinare i loro pensieri, anche quelli che non sanno di avere. Guarderò Julia nella sua danza tra i tavoli, la cassa, i sorrisi dei clienti e i loro sguardi, i suoi sorrisi e sarò geloso come un porco italiano. Un tempo, seduto qui ad aspettare. scrivevo su fogli sparsi, tovaglioli, il retro di un blocchetto di assegni. Ora sono 88 giorni che non scrivo.Così ho conosciuto Julia. Il fascino dello scrittore.  Mangiavo in quel posto da un mese, mi piaceva e mi piaceva Julia, anche se non sapevo nulla di lei. La guardavo, ma senza troppa insistenza. Una serà arrivai tardi, quasi all'ora di chiusura. Lei mi sorrise e mi indicò un tavolo al centro del locale. Poco dopo arrivo con un paio di calici di vino. ne poso uno sul tavolo per me e mi chiese:" Elle est un écrivain ou un journaliste?" 
Ficcai il naso nel bicchiere. Un rosso fruttato.  "Non, je suis un scribe ...". Non era una bugia.
Lei mi guardò un attimo smarrita, poi i suoi occhi si chiusero mentro cominciava a ridere. Alzò il calice in un brindisi silenzioso e bevemmo. "Sei simpatico italiano...". Si sedette al mio tavolo, cominciò a parlare, troppo veloce per il mio francese. Lo capì dai miei occhi, si fermò, sorrise ancora. "Scusa...mi chiamo Julia..."
Mi porse la mano. La strinsi. Era bianca, piccola e inaspettatamente morbida. Non gliela lasciai per il resto della serata.