La piccola dottoressa e l’enorme infermiera si sono cristallizzate tra i muri e le piastrelle bianche della piccola sala di un pronto soccorso, in un ospedale sperso tra le colline coperte di brina e di vigneti. Il pianeta Terra continua a girare su se stesso verso Est e il sole si affaccia su quelle colline infreddolite. Il tempo di un respiro e la frattura della realtà che la voce della donna ha creato si ricompone.
“Signora che dice? Si spieghi meglio…che vuol dire?”
Elena, la mini-dottoressa, ha ritrovato la sua maschera per prima e cerca di capire, mentre lo sguardo di Nunzia vaga tra quelle due donne che ora si annusano sospettose per riconoscersi o meno, appartenenti alla stessa tribù.
“Lavoro alle Molinette da due anni, in Pediatria I”
Il gergo tranquillizza Elena. “Ma mi dici allora che ti è successo?”
“Ho litigato con mio marito, anzi no…me ne sono andata”
Il peso dell’aria della stanza diminuisce istantaneamente. Non c’è stato nessuno stupro, non c’è nessuna puttana piena di malattie, non ci sono state botte e coltellate, solo la bella dottoressa ben vestita che ha litigato con il marito per un capriccio o un tradimento, ma di chi? Suo magari, un uomo non può essere tanto stupido da tradire una tale bellezza, anzi si, può essere tanto stupido. Qualsiasi sia il problema si risolverà. L’aria leggera si riempie di questi pensieri sparsi e ora seguiranno nell’ordine una bella scenata isterica e un pianto liberatorio, telefonate ed abbracci. E vissero tutti felici e contenti, e magari potevano evitare di rompere i coglioni.
“Mi sono sposata un anno fa”
La voce della donna arriva dall’angolo della stanza eppure sembra arrivare da un altro luogo più lontano. Le mani della Nunzia si incontrano sul suo ventre e si fanno compagnia mentre Elena si rilassa appoggiandosi allo schienale della sedia. Si preparano ad ascoltare la storia, ma per non più di cinque minuti.
“L’ho conosciuto durante la mia specializzazione a Roma”
La donna seduta resta con le gambe strette e le braccia serrate al corpo, comincia a dondolarsi lentamente avanti ed indietro come se i ricordi non fossero sufficienti a calmare qualcosa che si agita sotto l’impermiabile chiaro, sotto la sua pelle.
Eppure la voce è calda e tranquilla.
“Era il primo collega veramente gentile che conoscevo, lo capivo dalla sua voce, dagli occhi scuri che sorridevano d’imbarazzo guardando le mie labbra.
Arrivò una mattina in reparto, si era perso nel Policlinico e invece di arrivare a Virologia si era ritrovato da noi. Lo vidi al centro del corridoio che si guardava in giro come un bambino smarrito. Indossava una vecchia giacca grigia sformata e una cravatta orribile. Aveva la faccia stanca.
Ci guardammo per un istante. Gli chiesi chi cercasse. Lui balbettò qualcosa, poi fece il nome di un collega che conoscevo di vista. Gli spiegai come raggiungerlo a Virologia. Lui ripete le istruzioni e io capii che non aveva capito niente, cosi decisi di accompagnarlo, non so perché, forse solo per gentilezza o per istinto materno.” La donna con l’impermiabile smette di dondolarsi e sorride.
“Un giorno mi ha confessato che aveva capito tutte le mie istruzioni, ma non poteva già più fare a meno di me…un simpatico bastardo, non lo avrei mai detto allora. Lo accompagnai sino al reparto, lui aveva stampato sulla faccia un sorriso stupido, ma mi sembrava felice, aveva gli occhi scuri che brillavano, proprio come quelli di un bambino. Me lo ritrovai in corridoio tre ore dopo con una gerbera bianca rubata chissà dove. Si presentò, finalmente e mi invitò a cena, restava a Roma solo per un giorno. Pensai che magari volesse solo scoparmi, ma anche io avevo voglia di abbracciarlo e di sentire il suo odore. Nella mia mente lui era un albero: il mio istinto mi diceva che avrei potuto restare lì vicino, sotto i suoi rami, al sicuro. Mi vergognavo di pensare questo e allo stesso tempo ero felice e vogliosa di lui, di sentire il calore delle sue mani sui miei seni, sulla mia schiena. Non mi era mai successo di sentirmi tanto tranquilla con un uomo e allo stesso tempo tanto attratta ed eccitata, e non capivo perché. Ma non sempre si può spiegare tutto, vero? A volte bisogna lasciarsi solo andare.
Io sapevo di poterlo fare con lui, lo sentivo. Me lo dicevano i suoi capelli scuri arruffati da un lato e il nodo della cravatta allentato dopo una giornata di lavoro. Me lo diceva il cuore. Ci siamo incontrati cosi per tre mesi, lui arrivava ogni sabato da Milano e giravamo Roma insieme. Musei, mostre, ristorantini, chiese. Lui era curioso di me, del mio mondo e io del suo, di lui, del suo corpo e mi lasciavo esplorare come mai. Facevamo l’amore di continuo. Ed ero felice. A volte mangiavamo a casa mia, cucinava lui, io sono una frana e la mia piccola casa si riempiva di un buon odore di vita e di risate. Piaceva anche ai miei amici: simpatico, tranquillo, sicuro e sorridente, mai arrogante, mai invadente, un amico di tutti. Dopo altri sei mesi, una sera in un cinema in cui davano un vecchio film di Wim Wenders lui mi ha sussurrato all’orecchio “Amore mio, mi hanno offerto un nuovo contratto per cinque anni a Torino, vieni con me?”. Non vedevo bene i suoi occhi, ma sentivo che tratteneva il respiro. Gli ho risposto di si. Lui mi ha baciata, mi ha stretto la mano e non me l’ha più lasciata per tutta la sera. Andare via da Roma non è stato facile. Ho pianto tanto durante il viaggio, poi a Torino a casa sua, guardando i tre aceri del suo cortile e l’edera che scendeva dal suo balconcino mi è sembrato che quello fosse l’unico posto al mondo in cui avrei voluto vivere. Ero a casa finalmente. Cosi ci siamo sposati, ed ero felice.”
Un sospiro sovrasta la sua voce. Nunzia scuote la testa, e il suo sguardo racconta che tutte le storie d’amore sono destinate al fallimento, lei ne ha esperienza diretta, ma meglio non pensarci. Non ora, non oggi.
“Una settimana fa è partito per Bruxelles…un incontro per un finanziamento europeo alla ricerca…ci ha lavorato molto negli ultimi tre mesi…anche la domenica a casa, e io ero proprio felice di averlo sempre in giro a piedi nudi in salotto…era tutto mio, solo mio e mi piaceva sentire il rumore dei tasti del computer mentre scriveva e io leggevo seduta sul divano. Un pomeriggio ha piovuto cosi tanto e il rumore della pioggia, i tasti e il suo respiro sono state per me la musica più bella del mondo”
I tuoi racconti si leggono sempre con piacere. Spero davvero ci sarò il seguito, devo vedere se ciò che sento riguardo il possibile proseguo di questa storia, è giusto o no. Per come hai delineato la figura di questa donna, sento un'istintiva simpatia per lei.
ReplyDeleteCiao
Ciao Bartel, vedo con piacere che hai continuato il racconto. Passo a leggerlo a breve, nel frattempo ricambio i tuoi auguri per l'anno nuovo e ti confesso che mi fa piacere il tuo apprezzamento.
ReplyDeleteUn saluto, a presto!