Parola evocativa: elefante giallo. E tu te lo immagini li davanti, enorme. Un pachiderma giallo canarino, mostruoso, ma te lo immagini cosi bene che quasi ne senti la puzza per quanto possa sembrarti strano. E’ l’ultima immagine dell’India. Ci avevo vissuto tre anni con i miei genitori. Papà era il vice del nostro ambasciatore in India. Ho un baule di ricordi di quegli anni, ma quell’elefante colorato con della terra ocra che solleva la proboscide a salutare, cosi come fa il suo mahut sorridente e senza camicia è l’ultimo fotogramma, sintesi calda di un brandello di vita. Poi il portello dell’aereo si chiuse e volai via.
Parola evocativa due: Giappone. Io e te a Tokio, estate 1981. Dall’india atterrai a nel formicaio senza respiro di Tokio. Il respiro mozzato dall’inquinamento, il rumore ovunque. Potrei spendere molte parole su quel giorno, e cerco di ricordare quanti più particolari possibile , ma mi interrompono. E’ appena entrato mio nipote, il piccolo. Ha sete e gli do un bicchiere d’acqua. Beve reggendo il bicchiere con tutte e due le mani. Mi guarda dal fondo del bicchiere e si deve essere reso conto che scrivo qualcosa seduto al tavolo della cucina di notte e per di più in mutande. Ha una faccia cosi furba...dovresti vederlo, tutto suo padre, forse peggio se è mai possibile. Sospira dalla soddisfazione per l’acqua bevuta e mi chiede cosa faccio sbirciando sul tavolo. Sono stato tentato di dirgli la verità. Gli dico che sono conti da pagare. Annuisce con il capo, credo poco convinto però, mi bacia e torna a letto. Lo guardo andare via a piedi nudi sulle sue gambe magre e mi manca non essere più padre, ma solo nonno, mi manca. Un giorno porterò i miei nipoti a Tokio.
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