Rat race

Running

Monday, January 31, 2011

Libeccio (VII)


La pietra che colpisce il vetro lucido dell’anima di un uomo vestito da avvocato di successo è letale. Anni di lenta cottura, di abitudini, di sicurezze, di niente di male, di attimi messi in fila si perdono improvvisamente tra i fili taglienti della ragnatela che l’urto ha disegnato sul vetro. La pietra è una donna magra, biondo-bianca seduta su una branda, legata ad una flebo appesa ad un asta. La pietra blocca i pensieri e l’aria sembra non voler più entrare nei polmoni di tutti i presenti: l’avvocato smilzo, lo sbirro amaro, il direttore chiacchierone per paura.Poi, come in ogni risveglio da un sogno strano, poche sillabe affiorano: “Silvana…sei tu?”.Gli occhi sono una carta di identità scaduta, ma non per questo falsa. Il sorriso, o quello che sembra un sorriso, conferma. Se il direttore ci ripensa non sa spiegare come una donna in quelle condizioni sia stata in grado di saltare dal letto al collo dell’avvocato. Sa solo che ora i due sono abbracciati e guarda stupito la faccia stupida del poliziotto con una mano alla fondina della pistola. Il direttore non si spiega quel dolore sconosciuto nel petto, come qualcosa di pesante, metallico, che affonda nella carne e non fa male, ma regala peso a ciò che penetra, rende piombo il sangue che precipita, si coagula, si ferma. Ciò che vede è estraneo al suo presente, ma forse lo ha sentito qualche volta in vita sua. Il poliziotto non riconosce la donna, non è quella arrivata nel suo ufficio mesi prima. Quella era il pericolo pubblico numero uno, questa ha capelli corti, braccia magre e trasuda dolore.L’avvocato non pensa, non c’è più. Ora c’è Giorgio, e gli mancano le forze per stringere quel ricordo che ha tra le braccia. Solo l’odore è incredibilmente lo stesso ed è l’odore che gli dice che tutto ciò è vero, reale, che la flebo sgocciola ancora, che fuori arriva il libeccio, che sua moglie l’aspetta, che ha parcheggiato l’auto all’angolo del tribunale, che stamattina si è svegliato in una casa dove dormono i suoi figli. Ma che importa ora che le piccole mani di Silvana gli stringono le guance? E se la baciasse? Che importanza può avere la sua vita in questo momento?
“Avvocato…avvocato…”.La voce è dello sbirro, ma la faccia è quella di uno dispiaciuto di esistere.“Avvocato…signora…per favore…dobbiamo parlare…avvocato…signora De Stefani?”
La rabbia dimenticata risale nello stomaco dell’avvocato come vomito trattenuto a lungo, ma le mani di Silvana scivolando dal suo viso stringono le sue mani, guidandolo verso il letto.
“Vieni Giorgio, il commissario è qui per parlare …dobbiamo parlare…”.Il vomito torna a casa, seppellito ancora, forse per sempre. L’avvocato anestetizzato siede sul lettino, mano nella mano con Ciccia e aspetta.
“Si…parliamo”.
Il direttore chiude la porta uscendo e i suoi denti mordono a sangue il labbro inferiore mentre passa davanti alle secondine sull’attenti. Il sangue gli cola sul mento, mentre sparisce nella penombra di un corridoio lasciando dietro di se un rumore di passi e la scia del suo dopobarba da visita ufficiale.

Thursday, January 27, 2011

Poliestere bollente (ho amato una puttana e la amo ancora)

Mia suocera è preoccupata. Mia suocera crede che io sia pazzo.
 Come faccio a spiegarle che ne ho bisogno? 
 Come faccio a spiegarle che non lo faccio per restare giovane, 
  ma per sopravvivere? Io ho bisogno di correre.
Anche oggi, soprattutto oggi, in vacanza. Devo correre anche 
se c’è calore. Calore e scirocco. L’aria ha la stessa
 consistenza di una coperta bagnata. Io ci corro dentro, nel tardo 
pomeriggio di un giorno d’Agosto. Viale Magna
 Grecia, Viale Virgilio e finalmente il Lungomare. Il sole è basso e 
dal porto mi ferisce la faccia. Io sono contento. 
  Mia suocera pensa che sia pazzo. Di solito corro in parchi estetici, corro su baluardi ornati di ippocastani. 
Qui corro tra le auto,  schivo cani randagi e deiezioni e ascolto musica. Una vellutata di musica. 
Invece di diversi tipi di pesce io mischio Bach e Led Zeppelin, AC/DC  e Negramaro, Depeche Mode 
e Pearl Jam. Una vellutata per allenarsi. Ponte girevole e un po’ d’ombra caritatevole, ma il calore non passa.
 Una coppietta corre in senso opposto. Saluto come si fa tra runners. Nessuna risposta. Gente cordiale, gente meridionale. Io corro e sudo. 
Sudo, ma la mia maglietta è 90% poliestere e 10% elastan,  cuciture termosaldate, sudore fuori, fresco sulla pelle.
 Ci fosse una maglietta cosi per l’anima la comprerei subito. Fuori il dolore e la rabbia, dentro l’equilibrio. 
Io corro anche per questo, io qui corro soprattutto per questo. Il ritmo della mia corsa è regolare, il mio respiro
 un po’ meno. Could I be wrong, but since you have been gone you cast the spell, so break it. Corro lungo
 la ringhiera e guardo il mare: molte navi ancorate, nessuna vela. Io sono nato in riva a questo mare lenitivo e ho
 imparato ad andare a vela su un lago che porta in Svizzera.  Veleggio di domenica su un Meteor bianco (Osso
 di seppia il nome) con un amico croato/torinese che mia figlia chiama Lupo Lucio. Qui dovrebbe essere pieno 
di vele. “Ma c’è poco vento…”. Tutte scuse. Arroganza spartana, ma poi niente addominali, niente coraggio. 
Poi noi non siamo discendenti di quelli delle Termopili. Noi discendiamo dai Parteni, i figli delle vergini. 
Laicamente, figli di puttana cacciati di casa.  Questo posto è stato il loro rifugio. Forzando la mano alla storia 
e all’etimologia siamo parenti stretti di Cristo. Va da se che tocca essere messi in croce. Troppi pensieri, mi 
viene da ridere. Basta cosi. Corro, devo correre, devo pensare a correre. C’è la maratona di Torino ad Aprile.
 Mio padre lavorava alla Fiat, tornò per farmi nascere a Taranto. Io lavoro a Torino ogni mercoledì e giovedì.
 Karma circolare. Guardo il mare come quasi trent’anni fa quando ascoltavo le sirene delle navi mercantili e 
speravo di andare lontano. Fatto. Il mio ritmo di corsa  è aumentato. Il corpo ha ragioni che né la mente né il 
cuore conoscono. Scendo verso piazza dell’Orologio ed ora accelero in piano per i prossimi due minuti. Il 
colore Paul Newman del mare è lo stesso degli occhi di mia figlia. Colore mare di Settembre al Tramontone.
 Penso in codice, pochi iniziati possono capire. Quel colore particolare è un carattere recessivo rivelatosi tra 
le risaie, nascosto nel marrone terrone dominante dei miei. Quel colore racconta storie di viaggi violenti e di 
incontri-scontri, come in tutti i posti di mare, ma qui di più. Topazi ingravidati di futuro. Ho visto tanti occhi 
normanni tra questi vicoli. Molti portati da donne-anfora bellissime, se mute. Qui tutti si sono fermati a far 
l’amore. Anche il mio derelitto antenato francese. Chissà da dove arrivava e quante cicatrici aveva addosso. 
Poveraccio, aveva deciso di restare dove tutti odiavano i soldati Francesi arrivati come straccioni ai comandi 
di un generale-scrittore le cui ossa furono disperse per sfregio.  Perché? Ah, les liaisons dangereuses ,  forse 
un altra vittima dell’amore? I'm gonna give you my love Wanna Whole Lotta LoveUn obeso mi grida 
qualcosa in dialetto. Vivrà meno di me, probabilmente. Calore marcio, intriso di benzene e interiora di pesce. 
Rallento e mi preparo alla salita del Vasto.  Even flow, thoughts arrive like butterflies. Di nuovo ponte 
girevole, sono stanco. Non mi concentro sul ritmo. Penso troppo, non corro, scappo. Invelenito da freddo
 amore. Tutti sono arrivati e si sono fermati qui. E’ colpa della luce. Ho viaggiato per 44.000 chilometri e
 non ho mai visto una luce cosi solida, benigna, viva. Io sono andato via. Non potevo non andare. Marchiato
 da DNA mobile. Discendo da viaggiatori, appartengo al mare. Sempre uguale, sempre diverso, sempre in 
movimento, sempre attraversato da correnti profonde. Non posso stare fermo, corro, viaggio. Villa Peripato, 
marciapiedi distrutti all’ombra del muraglione che nasconde poche navi grigie. Conosco persone nate e vissute 
sempre nello stesso quartiere. Io (noi) forse sono (siamo) più felice(i). Forse abbiamo vissuto di più. Noi 
conosciamo altri giardini. Sappiamo che quello del nostro passato è stato distrutto. Abbiamo semi però.  
All I ever wanted, all I ever needed, is here in my arms, words are very unnecessary, they can only harm.  
Sono felice di correre qui. In via Fratelli Mellone corro incontro alle auto, poi via Cesare Battisti. Quando arriverò
 a casa, mi toglierò la maglietta. Sarà poliestere bollente intriso di  scirocco e di pensieri. Mia suocera pensa che sia
 pazzo. Forse ha ragione. Si, ha ragione, ma non lo saprà mai. Accelero l’andatura, ora posso, ora devo. Torno a casa, 
  sto tornando, sto tornando, sto tornando, sto tornando, sto tornando...

Tuesday, January 25, 2011

Libeccio (VI)


L’Alfa  che sta parcheggiando nel cortile interno del carcere è rossa, senza un copricerchione e con qualche ammaccatura. Un poliziotto, sicuramente. Il Direttore del carcere aspetta da un’ora l’arrivo di un paio di visitatori per la Di Stefano.
L’auto rossa riflessa negli occhi del Direttore solletica i pensieri.
 “Avrei preferito che fosse arrivato un carro funebre o un’ ambulanza. Quella povera donna sta morendo, e se non è morta sotto interrogatorio in questi mesi è un miracolo. Bisogna essere molto freddi per fare il Direttore di un carcere come questo. Bisogna scordarsi di pensare e far finta di non essere vivo. La Di Stefano è stata un simbolo per molte persone in questi anni, una speranza. Basta, ci sono cose che non bisogna neanche pensare. Avrei voluto aiutarla. Magari questo avvocato potrà farlo, far sapere quello che è segreto. Basta cosi. Pensare queste cose è pericoloso, possono poi affiorare nelle parole e sarei finito.”
L’interfono squilla nell’ufficio del Direttore. “Dottore, è arrivato l’avvocato della Di Stefano con il Commissario Montroni…”
“Falli salire, li accompagno io”
L’avvocato e il poliziotto salgono delle scale strette e scure nell’ala degli uffici del carcere. Il commissario Montroni ha lasciato in custodia la sua pistola e si sente nudo. L’avvocato stringe il manico della sua borsa e cerca di non pensare. Ha freddo.  Il secondino che li scorta ha poca voglia di salire le scale, ha le spalle curve e trascina ai piedi lasciando una scia di tanfo di sudore che fa rimpiangere ai due il vento del cortile in cui hanno lasciato l’auto. Appena sceso dall’Alfa l’avvocato ha sollevato la testa e chiuso gli occhi per annusare l’aria. Il commissario se ne è accorto: “Qualcosa non va?”
“Niente…sta arrivando una libecciata, si sente nell’aria.” Il Commissario ha guardato il cielo azzurro con nuvole alte e stracciate e ha pensato di non aver mai visto un avvocato annusare l’aria come un cane da tartufi o un pescatore. Che strano il mondo! Non sa esattamente perché, ma quello spilungone ben vestito comincia a sembrargli più accettabile come compagno in una assurda mattinata di lavoro.
Il secondino bussa ad una porta chiara ed entra facendosi subito da parte. L’uomo in piedi accanto ad una scrivania chiara è il direttore. E’ un uomo non molto alto, olivastro e con dei capelli troppo scuri per la sua età. “Buongiorno, sono Antonio Iodice,  il direttore del carcere…vi attendevo…immagino che vogliate incontrare subito la nostra ospite?”
Strette di mano  rapide, sguardi rapidi, pensieri rapidi, quasi si avesse paura di dire altro, di pensare altro. Come ad esempio fa l’avvocato:
“La vostra ospite? Ospite? Che cazzo dice questo…”
“Prego vi faccio strada”. Il commissario e l’avvocato seguono la scia del dopobarba di marca usato con abbondanza forse per l’occasione e attraversano corridoi scuri e pozze di luce ferma. Il clangore di metallo incardinato li accompagna, ma nessuna voce li attira mentre scendono nelle viscere del carcere a cercare l’ultima porta dell’ultimo corridoio. L’avvocato sente di scivolare verso un qualcosa per cui non  è preparato e vorrebbe accanto qualcuno, un amico magari, ma accanto a se trova quel poliziotto ostile e davanti solo parole “absit iniura verbis, naturalmente…ma un delinquente è un delinquente…non pensate? E poi diciamolo…”. Il direttore riempie i corridoi di chiacchiere, sembra un bambino spaventato davanti ad una vaccinazione che parla allontanando il momento fatale dell’ago. Il terzetto svolta ad angolo retto in un nuovo corridoio, sezione femminile C, massima sicurezza, una sola cella, tre donne in uniforme sedute ad un tavolo. Una legge una rivista, un'altra sferruzza e l’ultima fuma guardando il soffitto. Gli strumenti di lavoro svaniscono cosi velocemente che il commissario non è sicuro di averli visti. La noia scivola via dai visi femminili mentre l’ultimo cancello cigola.

In quella cella in fondo al corridoio sono segregati i pensieri di Silvana che galleggiano toccando i muri sporchi, volano sul soffitto pieno di nidi di ragno e cadono sul letto sfatto su cui una piccola donna biondo-bianca è seduta con le gambe attaccate al corpo e le mani che accarezzano le lenzuola verdi con dei grandi papaveri disegnati sopra. I pensieri saltano verso la finestra con le sbarre e cercano di guardare fuori, ma fuori c’è solo un muro grigio, allora rientrano in cella e si siedono accanto alla donna.

“Se non mi muovo non sento male. Se non mi muovo va tutto bene. Passo il tempo seduta qui, spalle al muro e mi perdo dove nessuno può raggiungermi. Possono tenermi qui tutto il tempo che vogliono, tanto io non ci sono. Ho perso la parte migliore di me e mi è rimasto il dolore, ma se sto ferma non lo sento. Seguo il cammino del raggio di sole che cola dalla finestrella in alto. E' il dito di Dio che disegna sulla mia anima. Disegna le strade che ho attraversato e che non mi sporcheranno più le suole delle scarpe. Sto ore ferma qui e vado lontanissimo, ma il dolore non mi segue. Se non mi muovo non soffro, mi dimentico di me. Non mi dimentico di te, però. Allora sento il dolore tutto insieme e sento di affogare, ma il segreto è non muoversi neanche in questi momenti, ferma, immobile. Quando l'inferno mi chiama, io sto ferma, non scappo e guardo nella luce dove solo io so muovermi. Non mi chiedo mai quando finirà, forse oggi, forse mai, non sento più il tempo, resto immobile e non sento dolore. Penso che oggi qualcuno arriverà e sei arrivato tu. Tu e tutto il dolore da cui fuggo.
Oggi qualcuno verrà e tutto finirà. Allora godiamoci questa pace e camminiamo per le strade di Dio”

L’ultima serratura fa sentire la sua voce e esausta si arrende aprendo la porta della cella di Silvana, la sua ultima tana.

Tuesday, January 18, 2011

Libeccio (V)

Arriva al pianterreno senza accorgersene, come camminando in una bolla di vetro. Allo stesso tempo i la sua percezione si è acuita in maniera dolorosa. Sente tutto l’universo in contemporanea. E’ come aver vissuto in apnea per anni e ora l’aria entra violentemente nei polmoni della sua anima e fa male, fa molto male. La luce d’Aprile che spacca le vetrate gli ferisce gli occhi, il brusio della gente l’assorda. Entra nella caffetteria e sente di svenire mentre l’odore di caffè e cornetti, dopobarba e profumi, pelle e capelli lo inonda.  Si appoggia al bancone per non cadere e osserva con maleducazione il labbro leporino dell’apprendista barista che non gradisce.
“Mi scusi un caffè corretto al cognac”
“Finito”
“Cosa?”
“Il cognac”
“Normale allora”
Giorgio Pittaluga si volta e si ritrova ad osservare con interesse due peli neri lunghissimi che crescono sulla sommità dell’orecchio dell’avventore accanto che, sentendosi osservato, si gira con la tazzina ancora a mezz’aria. L’avvocato risponde con una smorfia strana che vuole essere un sorriso. L’urto della tazzina sul piattino lo riporta alla realtà. Il suo caffè è pronto e lui cerca di berlo chiudendo gli occhi.
“Avvocato Pittaluga?”
La voce rauca lo costringe ad aprire gli occhi. Una specie di poliziotto da fumetto è a mezzo metro da lui e sembra volergli sbarrare ogni via di fuga. I capelli castani sono lunghi ed arruffati come lunga è la barba con qualche pelo grigio. Jeans da telefilm americano sporchi e troppo stretti lottano con una pancia evidente che non gli permette di chiudere il giubbotto di pelle marrone troppo usato e di due taglie più piccolo. Solo gli occhi non sono da fumetto, cosi come non lo è il gonfiore sotto l’ascella sinistra. Avrà trenta, trentacinque anni, porta  la fede ma la sua trascuratezza è da uomo solo. Le spalle, le braccia e il torace indicano chiaramente che non è uomo da mediazione, ma si può avere paura di un uomo con le spalle ricoperte di forfora? Si, se ti guarda da mezzo metro e non ha una voce gentile.
“Si?”
“Sono il commissario Montroni”
“Piacere…posso offrirle un caffè?”
“No…abbiamo da fare.”
L’avvocato fa spallucce, finisce il suo caffè e allunga qualche moneta sul bancone.
“Tieni il resto”
L’apprendista barista non mostra riconoscenza.
“Andiamo?”
“Andiamo…il Dott.Locchi preferisce che usiamo la mia auto…”
“Va bene, mi faccia prendere solo il soprabito dalla mia…”
“E’ necessario?”
L’avvocato si ferma nel mezzo dell’entrata del bar, con il suo bel abito grigio e la sua borsa scura e guarda il poliziotto negli occhi. Sa che  sarà il suo cane da guardia per le prossime ore, sarà il testimone del suo tradimento, spera che gli abbiamo fatto l’antirabbica e che la sua auto non sia popolata da troppi agenti patogeni. Sa anche di essere comunque l’avvocato Pittaluga e che tra poche ore tutto tornerà come prima. Restano fermi lì, in mezzo al via vai di persone che li urtano guardandosi negli occhi per qualche secondo.
“Si, è necessario”.
L’avvocato esce dal tribunale precedendo il poliziotto silenzioso e si avvia alla sua auto. Si riprende il soprabito e si lascia guidare senza una  parola verso una vecchia Alfa Romeo scura a cui manca un copricerchione. Il motore però è ancora in ottimo stato, si schiarisce la voce e mentre l’avvocato cerca di allacciarsi la cintura di sicurezza, l’improvvisa accelerazione lo schiaccia allo schienale. Il sorriso del commissario chiarisce chi ha in mano lo scettro del potere, ora. Un potere di vita e di morte.
"Sa, avvocato... sono io che l'ho arrestata!"
L'avvocato guarda la strada oltre il parabrezza.
"Complimenti"

Monday, January 17, 2011

Libeccio (IV)


E lui restò. Lei divenne la sua fidanzata-amante, silenziosa e presente, discreta e gelosa alla follia, la sua aria, eppure lentamente la crepa tra di loro si allargò senza che se ne accorgessero.
Lui restò sino ad una mattina di vent’anni prima, quando la incontrò nel portone di casa sua mentre usciva per andare a frequentare il suo tirocinio nello studio di un avvocato fiscalista molto importante, un caro amico di quello che sarebbe diventato suo suocero. Se la ritrovò davanti in una tuta viola, scarpe da ginnastica rosse e occhi tristi. Lo baciò a tradimento e poi gli lasciò una biglietto nella mano, fuggendo fuori e salendo su una vecchia Citroen che l’aspettava con il motore acceso. Lui non ebbe il tempo di reagire. Lesse senza respirare le due righe scritte a matita su un foglio a quadretti ”pensa alla tua vita e dimenticami”. Ma lui ha sempre avuto buona memoria.  Lei sparì quel giorno, la cercarono invano, ebbero sue notizie due anni dopo da parte della polizia che perquisi la casa di zio Gianni e le cantine del palazzo. Poi i titoli dei giornali sulla banda di terroristi che minava il futuro del paese e una sua foto, quella del primo arresto durante una manifestazione di protesta. In quegli anni prima il dolore poi la frustrazione ed infine la rabbia lo avevano accompagnato ogni volta che tornava nel suo quartiere per visitare i genitori. Poi un’ assenza di ogni sensazione lo aveva illuso di aver dimenticato. A tradirlo, a volte, solo i sogni, la sua parte più vera. E adesso rieccola a minare tutta una vita costruita per dimenticare ciò che non poteva essere, costruita meticolosamente, giorno per giorno, come il meccanismo di un immenso orologio che batte i secondi tutti uguali e rassicuranti.

“Dottor Locchi…insomma…cosa vuole da me?”
L’avvocato Piccalunga fissa i buchi neri che hanno sostituito gli occhi del magistrato. Un luccichio, forse il riflesso di uno specchietto di un auto giù in strada, attraversa il soffitto dell’ufficio.
Il magistrato sospira quasi scusandosi. “Avvocato, mi dispiace, speravo di non usare queste informazioni…ma, insomma io credo  che se lei collaborasse con noi… lei si creerebbe un bel credito con il nostro stato…e poi noi potremmo aiutare la sua antica amica e risolvere un po’ di problemi…sa…i giornali non l’hanno detto, ma lei si è arresa perché è malata...molto malata”
Giorgio rivede Ciccia a dieci anni malata in un lettino, con la febbre alta e lui li accanto con una pezzuola imbevuta di acqua e aceto che cerca di farla parlare e di rinfrescarla. Tra le labbra strette dell'avvocato si fa strada un pensiero. Aiutare Silvana, la sua Ciccia a stare meglio in quell’inferno? Si, si, si. Ogni uomo ha un prezzo e questo è il suo.
 “Cosa devo fare?”
“Il commissario Montroni la incontrerà al bar del tribunale e la accompagnerà in carcere dalla Di Stefano. Lei dovrà farsi dire dalla Di Stefano dove è situato il loro deposito e la stamperia. Naturalmente al colloquio parteciperà anche il commissario. Se otterrà le informazioni aiuteremo la Di Stefano a morire senza troppo dolore e ci dimenticheremo di lei, avvocato. Quindi le conviene essere molto convincente. Chiaramente questo colloquio non è mai  avvenuto.”
“Chiaramente”
“Arrivederci Avvocato”
Una mano grassa artiglia il fascicolo e lo chiude, l'altra si apre verso l'uomo smilzo che la ignora.
“Arrivederci”. Un avvocato con  borsa  esce dall'ufficio R.C. dove ha fatto tana il magistrato Locchi, e respira, allarga il torace e respira, si allarga la cravatta grigia e respira. Si è venduto, sa perché, ma è felice di essersi venduto perché un segreto doloroso è salvo e allora perché non combattere per farlo respirare? E' quasi allegro. Gente sale, gente scende nelle scale del tribunale, gente vive, gente muore per le aule del tribunale, ma tutto questo oggi non tocca lui, non oggi, non ora. Due desideri si agitano nei suoi occhi: un caffè ben fatto corretto al cognac, magari un Martell , e lunghi minuti per pensare a chi vent’anni fa scrisse due righe su un foglietto, a chi ora lo ha chiamato per essere salvata. E’ quasi allego. La rivedrà. La rivede imbronciata sul molo mentre il leudo si allontana in una mattina domenicale. La rivede e risente la sua voce di bambino che sussurra “ti amo”.

Friday, January 14, 2011

Libeccio (III)

Una foto in bianco e nero, due uomini intorno ai quaranta abbracciati, mani grandi, sorrisi che spaccano pelle abbronzata dal mare. Tra di loro un ragazzino magro, bruno e una bambina bionda con una bambola nuda tra le mani. Sullo sfondo una vela triangolare. Giorgio Pittaluga si rivede bambino tra suo padre e lo zio Gianni, accanto a Ciccia, la figlia di zio Gianni. Lo zio Gianni era un amico di papà, Giovanni Di Stefano, e Ciccia è Silvana, la sua cara, dolce, antipatica, stronza Ciccia Silvana, la sua amica d’infanzia. Dietro la vela latina appartiene al Nuovo Santo Stefano, un vecchio leudo che i due uomini avevano comprato negli anni 50’ e rimesso a posto. Pensavano di usarlo per portare i turisti da Genova a Mentone o a Montecarlo e viceversa. L’avventura però non funzionò benissimo. La foto doveva essere stata scattata di domenica mattina, forse da sua madre, mentre si preparavano ad uscire in mare con il leudo per portarci una comitiva di americani. Lui avrebbe accompagnato suo padre e suo zio per aiutarli con i signori che parlavano solo inglese e ad imparare ad andare a vela con quella barca tonda e protettiva, prudente e materna, mentre Silvana sarebbe rimasta a terra con le mamme. Ciccia come sempre si sarebbe arrabbiata e gli avrebbe messo il muso.

Lo stesso muso che mostra nella seconda foto, a colori. Una foto segnaletica di una ragazza bionda di una ventina d’anni, capelli tagliati alla maschietta, una studentessa con un paio di occhiali dalla montatura metallica, leggeri. L’aria stanca di chi ha dormito con gli abiti addosso ed è stato prelevato a forza da qualche posto. Lo sguardo è quello di una bambina arrabbiata che medita di fartela pagare. Ricorda il giorno in cui è stata scattata quella fotografia. La madre di Silvana che arriva a casa loro piangendo e dicendo che la sera prima i carabinieri avevano arrestato sua figlia, ma lei lo aveva saputo solo allora ed era venuta a chiedere aiuto a mia madre per andarsela a riprendere in caserma, per capire cosa avesse fatto di male. Ricorda il suo cuore che rallentò e si fermò, freddo per lunghi attimi. In quel giorno nacque la prima crepa sullo specchio levigato della sua vita.

“Come vede, noi qualcosina del suo passato diciamo…proletario, la conosciamo avvocato…”

Dietro le pupille dell’avvocato che ascolta, solo una preghiera, la prima dopo molti, molti anni.
“Dio fa che non sappia niente del resto, fa che non sappia tutto…no! non può saperlo, non lo sa nessuno…”

Il magistrato continua a colpire con un bastone fatto di passato l’uomo smilzo con la testa china sulla scrivania. Sa che ora il gioco è in mano sua, come aveva previsto, sa che vincerà la partita e vedere sulla testa dell’avvocato l’arrivo della calvizie lo rende quasi felice.

“Naturalmente avvocato, non sappiamo proprio tutto …ad esempio, non sappiamo che fine ha fatto quella barca della foto…”

Queste ultime parole risvegliano un lupo maligno nascosto nel petto dell’avvocato, un lupo abituato ad attaccare e vivere dietro spessi libri contabili, codici, regolamenti e ad uscire vittorioso da ogni scontro con brandelli di carne degli avversari tra i denti.
“E’ presto detto …” L’avvocato si risolleva e chiude il fasciolo rimandandolo al destinatario. “Il vecchio leudo che si intravvede nella foto, si chiamava il Nuovo Santo Stefano, è stato venduto nel 2002 ad un museo francese. Il ricavato mi ha aiutato ad acquistare la mia attuale barca che come lei sicuramente sa è un Grand Soleil da 45 piedi, ormeggiato a Fezzano, circa 14 metri, una bella barchetta discreta con cui io e mia moglie spesso portiamo in giro a veleggiare i nostri amici più intimi…che lei sicuramente conosce…inutile fare nomi, credo…”

Il magistrato con i gomiti puntati sulla scrivania incrocia le mani all’altezza del viso.
“Avvocato, avvocato…conosco tutti i suoi amici e so che nessuno di loro metterebbe più piede sulla sua barchetta se si sapesse delle sue frequentazioni…”
“Ma quali frequentazioni?! La Di Stefano era solo una bambina figlia del socio di mio padre…una persona che non vedo da più di vent’anni…che dico , almeno venticinque…con cui non ho avuto e non ho frequentazioni di nessun tipo …”
Uno schizzo di saliva cade sul piano della scrivania e Giorgio non può fare a meno di pensare di aver sputato addosso a Silvana in quel momento.  La saliva lui e Ciccia se l’erano scambiata spesso, prima sputandosi addosso durante i loro litigi da bambini, poi baciandosi durante il loro primo amore segreto. Era difficile che non fosse cosi. Cresciuti come fratello e sorella, si erano ritrovati a sedici anni ad essere gelosi l’uno dell’altra senza motivo apparente. Poi la natura e il buio della cantina del palazzo popolare in cui abitava Giorgio avevano chiarito tutto alle loro mani frettolose, instillando nel loro cuore la paura. Paura che altri sapessero, paura che i loro genitori scoprissero il loro amore, paura di tutto. Poi lui al liceo aveva conosciuto la sua attuale moglie, quella che sua madre chiamava con disprezzo “la gatta” e tutto era cambiato. Nel suo mondo erano entrate le camicie bianche e le cravatte, il profumo di lavanda della sua pelle e le sue mani lisce, e la voglia di lasciarsi alle spalle il leudo e le domeniche in mare, i tagli alle mani e le canzoni che suo padre fischiettava lavorando, tutto, tutto tranne Silvana.
Silvana sapeva tutto, vedeva tutto e un giorno lo abbracciò al buio: “Non mi importa, non mi importa di niente, non mi importa se ci vai a letto, ma resta con me, resta con me…”
E lui restò.