Basta distrazioni, coraggio al lavoro. Torno al motivo fondante di questo blog. Era un pomeriggio di settembre e la mia vita, come quella di tutti noi, se ne fregava bellamente dei miei sforzi nell'orientare la prua delle mie situazioni verso un mare meno agitato. Macchè!!! E allora scappo! Dove? Tra le braccia di una escort (si una puttana) gratuita, la scittura. Al massimo ti lusinga con qualche pagina che somiglia a ciò che hai pensato di scrivere, ti fa pensare che potresti anche finire un libro, finalmente, dopo anni (ma certo scrivi pure decenni) di racconti, storie cominciate e mai finite (perchè tanto...), di poco tempo per scrivere perchè ti tocca vivere, di lotta con la paura di scrivere che ne soffoca il piacere. Cosi ho deciso di aprire un blog per forzarmi a finire un progetto di scrittura. Il tutto un pò troppo drammatico, vero? Ma è un modo come un altro per metter ordine. Poi mi sono lasciato prendere la mano, perchè, come tutti quelli che ora leggono queste righe, io amo quella puttana. si l'ho detto, la amo, lo confesso. Mi fa star bene, mi fa parlare con l'uomo che che mi guarda allo specchio la mattina mentre mi rado, mi fa sentire l'odore dei fiori di plastica se necessario. Allora ricomincerò a scrivere di Pietraluce, di tre persone che si incontrano per caso in Giappone negli anni ottanta, si dividono e vivono tra vent'anni ricordando qualcosa che è accaduto, scoprendo il punto d'origine delle traiettorie delle loro vite e molto altro: le vere persone che vivono sotto le loro palpebre chiuse. Ok, va bene, ho detto (scritto) quello che il caffè di mezza mattina ha suggerito. Ad maiora
B
Pensieri per un viaggio tra la Pietra e la Luce (poi ho scoperto che la pietraluce è un materiale per i sanitari...maktub, tutto è scritto!)
Friday, October 29, 2010
Thursday, October 28, 2010
Bologna sotto la pioggia (III out of III)
Respiro e penso a quel seme venuto da chissà dove mentre i vetri si appannano un po’ e io con loro.
Eccolo. Sta parlando con qualcuno, un collega si direbbe. Gesticola molto, si vede che è abituato a spiegare davanti ad un pubblico, ad insegnare. Sposta la borsa di pelle da una mano all’altra continuamente. Ogni gesto è plateale, viene caricato di significato. Anche da questa distanza riesco a capire tutto. Ogni gesto é una frase. Qualcuno ha fatto un errore, ha sbagliato di grosso ed adesso sono fatti suoi, meglio, sono cazzi suoi, non è possibile sbagliare cosi, lo ha fatto intenzionalmente, ma se crede di fregarmi… la pagherà di sicuro. Io me ne lavo le mani, fate voi.La testa dell'altro oscilla in un altalena di si e di no, ma il piccoletto evita di incrociare lo sguardo di Mortara. Lo disprezza, ma non può palesarlo. Mortara è potente e pericoloso. Adesso si salutano sorridendo e sono sicuro che si staranno augurando a vicenda una morte dolorosa. Sarà meglio muoversi prima che incontri qualcun’altro. Gli corro dietro zigzagando tra gli studenti che affollano il portico e che sembrano andare tutti nella direzione opposta alla mia.“Professor Mortara... Professor Mortara, mi scusi...mi scusi...Professore...”Lui si volta rigido, infastidito, mi dà un occhiata dall’alto in basso e visto il taglio della mia giacca e la borsa fatta a mano nella mia mano sinistra pensa che sono forse degno di parlargli, forse appartengo al suo clan. “Professore mi scusi se la disturbo, sono Mattia Torre”. Gli porgo la mano e lui di riflesso allunga la sua, tentando di ricordarsi dove mi abbia visto o abbia sentito il mio nome. Sorrido per tranquillizzarlo. Mi stringe la mano rapidamente e senza forza. “Guardi, sono stato incaricato di consegnarle ...scusi un attimo...” Apro la mia borsa e frugo all’interno rapidamente. Gli allungo una cartellina azzurra “...questa pratica da visionare”. Mortara apre la cartellina con sguardo interrogativo, legge le prime righe ed impallidisce. Amo questi momenti, tutto è stato predisposto ad arte ed ora il mio compito è facilissimo. Le pupille di Mortara sono dilatate nella penombra dei portici. La luce le attraversa e sulla sua retina ci sono io con una mano ancora nella borsa ed il mio sorriso per bene. Non sa cosa fare e non lo saprà mai. Estraggo la mia Beretta ben oliata e lucida e sparo due colpi al cuore da mezzo metro. Tra la quarta e la quinta costa sinistra si formano due macchie scure che si fondono in una sola. Il professor Mortara si inginocchia e per poco non mi cade addosso. Mi scanso di lato, qualcuno grida, qualche ragazza fugge, tutti guardano verso di me. Raccolgo immediatamente la cartellina azzurra ed estraggo il mio distintivo dalla borsa. Me lo aggancio ad un’asola della giacca ed aspetto. I ragazzi intorno hanno visto tutto, si sono fermati pietrificati intorno a me, ma adesso il mio distintivo e la pozza di sangue che si allarga li scacciano via. Solo un paio di loro sembrano più resistenti. Mi fissano. Io li fisso di rimando. Vinco io, loro abbassano lo sguardo e vanno via. Un tempo mi sarebbe stato più difficile, ma l’esperienza serve pur a qualcosa. Arrivano finalmente due carabinieri di corsa. Un minuto scarso, non male. Hanno entrambi le mani sulla pistola nella fondina aperta, poi vedono il distintivo e si rilassano. Il più giovane è più lento a capire, ma guardando l’altro allontana la mano dall’arma..“Buongiorno”“Buongiorno, favorisca i documenti prego...” Gli allungo il distintivo e la patente.“Signor ...Dottor Torre... e va bene che lei è un ispettore giudiziario, ma per la miseria, ci sono i silenziatori...lei mi mette in subbuglio tutta la zona a quest'ora poi...mi scusi sa...”“Si ha ragione, mi scusi ma il silenziatore mi si è rotto proprio stamattina...e non potevo rimandare... lei capisce…“Bugiardo. Questa è l’unica libertà che mi prendo nel mio lavoro, diciamo il mio tocco da artista, la mia firma. Mi piace il suono dello sparo che è assordante da vicino e a volte sembra quasi di poterlo vedere mentre si propaga nell’aria e raggiunge il soggetto contattato, il soggetto da rettificare, e poi gli altri intorno. In quel momento tutto si ferma ed esiste solo lo sparo, la punizione, la giustizia. Quasi una teofania. Inutile spiegarlo al carabiniere. Lo vedo benissimo che non mi crede. L’angolo destro della sua bocca si piega leggermente mentre non mi guarda e mi allunga il distintivo.” Senta ...io devo farle comunque una multa per spari non autorizzati in luogo pubblico...lei capisce ...domani il mio superiore potrebbe contestarmi il fatto, con tanta gente...è pericoloso...” ed estrae un taccuino dalla tasca. Non contesto, la pagherò di tasca mia, non importa. Il più giovane si occupa del morto, gli ha preso il portafogli . “Collega, questo si chiamava Sergio Ersilio Mortara, che cazzo di nome ...e guarda quanti soldi aveva...”. Io ed il collega allunghiamo il collo. Nel portafogli ci sono almeno un migliaio di euro in biglietti di grosso taglio, forse più. Il mio sguardo incontra quello del carabiniere più anziano “Strano...gente di quel tipo non gira mai con i contanti, usano solo carte di credito”. Ci fissiamo un attimo, poi il carabiniere annuisce con un rapido movimento della testa verso il compagno e i soldi arrivano nelle tasche del giovane quasi istantaneamente. Si chiama comunicazione non verbale. “Senta dottore, per questa volta niente multa...però la prossima...” Le parole vengono coperte dalla sirena della autoambulanza. La gente intorno guarda un attimo e poi riprende la sua strada. Solo due vecchiette si sono fermate a pochi passi da noi. “Ma te pensa , proprio lui, una persona per bene...” “Hai ragione, hai ragione Elvira, che roba...da non credere...che roba...” Faccio firmare i soliti moduli per la rettificazione ai due carabinieri in qualità di testimoni, rimetto il tutto nella cartella e stringo loro la mano. Il carabiniere anziano mi indica con la testa la barella coperta dal lenzuolo “Senta dottore, per curiosità...ma che aveva fatto il professore là?”. Ormai siamo in confidenza, glielo posso anche dire “Era riuscito a non farsi condannare per commercio illecito di prostitute e bambini, il giudice era un suo amico...stesso ambiente, una partita a golf, una gita in Sardegna, qualche donnina allegra...e poi noi li abbiamo beccati, il giudice ha confessato ed il suo amico è stato condannato, solita storia”. Loro mi salutano militarmente e il più giovane mi regala un sorriso grato e conclude l’episodio con l’indice oscillante. ”Non si scappa eh...la legge è uguale per tutti!”“Già, non si scappa”. E’ tutto finito, è ora di tornare a casa. Le vecchiette sono ancora lì, ma hanno riaperto gli ombrelli infastidite da una pioggerella leggera leggera, impalpabile. A noi due piaceva passeggiare sotto la pioggia. Bologna non è abbastanza grande per annacquare i ricordi. Arrivo all’auto e prima di aprirla aspetto un attimo. Spero che tu esca da quel cancello. Finirà prima o poi, finirà. Mi infilo in auto e torno a casa. Magari sarai lì ad aspettarmi dietro i vetri. Un sms mi vibra in tasca. Mi è appena arrivata una contestazione per spari senza silenziatore in luogo pubblico.
Tuesday, October 26, 2010
Bologna sotto la pioggia (II out of III)
L’Adriatico è di cattivo umore sotto la pioggia. L’auto attraversa la cittadina e si avvicina al casello autostradale. A quell’ora la A14 è affollatissima, Tir targati Foggia e auto di Ancona si inseguono verso Nord. Bolognesi e Riminesi scivolano senza fretta a Sud. L’auto grigia è potente, non le interessa giocare e pian piano comincia a contare i caselli: Fano, Pesaro-Urbino, Cattolica, Riccione, Rimini Sud, Rimini Nord. Ogni casello qualche amico, qualche ricordo, qualche gita o qualche lavoro. Tra i tergicristalli in azione arrivano Cesena e le barche di Cesenatico, Forlì e due pazzi furiosi con cui passare le serate in allegria, lo svincolo per Ravenna, Faenza e la sua puzza, Imola e tutte le volte che non sei riuscito ad andare al Gran Premio tanto è meglio in televisione, Castel San Pietro, poi fuori dall’autostrada a Bologna San Lazzaro, poi la tangenziale, viale Stalingrado, il ponte sulla ferrovia, poi a sinistra sui viali e dopo un pò al semaforo a destra su via Irnerio.
Qui solo parcheggi a pagamento e piove ancora. Qui accanto a via Filippo Re andrà bene lo stesso. Ti ricordi di tutte le volte che ti venivo a prendere qui ad Agraria per portarti a pranzo da qualche parte? Arrivavo in bici da Giurisprudenza e tu eri cosi felice quando mi vedevi. Una volta mi sono nascosto vicino al bar e ti ho vista parlare, ridere e scherzare con i tuoi amici. Ti toccavi sempre i capelli. Eri cosi bella, sei cosi bella. Mi era piaciuto vederti vivere senza di me. Lo so che lo dicono sempre tutti gli innamorati, lo so. Allora ero pazzo di te ed un po' lo sono anche ora. Mi piacerebbe rientrare li dentro e ritrovarti come allora, ma lo so che non sarà cosi. Però mi piacerebbe. Sarà meglio pensare al lavoro. Ridiamo un’occhiata alla pratica. Qui c’è una foto tessera della persona da contattare. Ha uno sguardo superbo, strafottente, sicuro. Occhi scuri, profondi, pelle curata. Una stempiatura troppo alta per non essere l’inizio della calvizie. Soldi ne deve avere molti. Il vestito è sicuramente di sartoria, la cravatta di seta, con un nodo piccolo un po' fuori moda. La pratica parla di proprietà in mezza Italia, intrallazzi in mezza Europa e viaggi in mezzo mondo. E’ arrivato a metà dell’opera. Verso le tredici sarà in Via delle Belle Arti, proprio qui a 50 metri. E’ un abitudinario, andrà a pranzo nel solito posto. Non mi resta che aspettare. Nell’aria c’è un odore di terra bagnata e di qualcos’altro, qualche fiore del giardino d’agraria qui di fronte si deve essere dischiuso.
Staffetta dell'amicizia (grazie Sonia)
La cara Sonia (lalocandanellabrughiera.myblog.it) mi ha "nominato" in questa piccola Staffetta dell’Amicizia. Vincendo la mia timidezza e foraggiato dall'amicizia di Sonia partecipo allegramente rispondendo ad 8 domande in modo tale da condividere un pezzettino di me. Mi piace questo gioco anche perchè le domande sono un invito ad un viaggetto nella memoria. Alla fine di questo post io nominerò altri amici blogger e chi vorrà accogliere il mio invito dovrà inserire l’immagine qui sopra, rispondere alle domande e nominare altri, ma come dice Sonia "per "chi non vorrà, non importa. Alla locanda nulla viene mai imposto" e neanche nel mio piccolo blog.
1- Quando da piccoli vi veniva chiesto cosa volevate fare da grandi, cosa rispondevate?
Astronauta, mi affascinavano le immagini dalla Luna di signori in tuta bianca che saltellavano, poi mio padre mi regalò il piccolo chimico e decisi che sarei diventato uno scienziato. Fatto!
Astronauta, mi affascinavano le immagini dalla Luna di signori in tuta bianca che saltellavano, poi mio padre mi regalò il piccolo chimico e decisi che sarei diventato uno scienziato. Fatto!
2- Quali erano i vostri cartoni animati preferiti?
Goldrake, guardavo Heidi con mia sorella piccola, ma piaceva anche a me, poi SuperGulp con Alan Ford e Nick Carter (e l'ultimo chiuda la porta!!!)
Goldrake, guardavo Heidi con mia sorella piccola, ma piaceva anche a me, poi SuperGulp con Alan Ford e Nick Carter (e l'ultimo chiuda la porta!!!)
3- Quali erano i vostri giochi preferiti?
Soldatini dell'Atlantic in scala minuscola, grandi battaglie campali nel balcone di casa, poi pallone e pallone e pallone.
Soldatini dell'Atlantic in scala minuscola, grandi battaglie campali nel balcone di casa, poi pallone e pallone e pallone.
4- Qual è stato il vostro più bel compleanno e perchè?
Il prossimo
Il prossimo
5- Quali sono le cose che volevate assolutamente fare e non avete ancora fatto?
Scalare a mani nude una parete di roccia, nuotare con i delfini, riprendere a viaggiare per mesi in paesi lontani vivendo come gli abitanti del luogo
Scalare a mani nude una parete di roccia, nuotare con i delfini, riprendere a viaggiare per mesi in paesi lontani vivendo come gli abitanti del luogo
6- Quale è stata la vostra prima passione sportiva o non?
Se rispondo calcio è scontato? Dopo ho scoperto il rugby e la vela vivendo all'estero
Se rispondo calcio è scontato? Dopo ho scoperto il rugby e la vela vivendo all'estero
7- Qual è stato il vostro primo idolo musicale?
Queen, Queen, Queen poi Talk Talk (va be sono diversi) e amavo patsy kensit (eigth wonder), poi ho scoperto David Bowie e allora...
Queen, Queen, Queen poi Talk Talk (va be sono diversi) e amavo patsy kensit (eigth wonder), poi ho scoperto David Bowie e allora...
Babbo Natale mi è debitore di un sacco di roba, ma ho ricevuto molto altro e facciamo pari e patta!
I blogger nominati sono:
laclarina (senzaerroridistumpa) mi piacciono gli argomenti di cui scrive e come ne scrive
carmine de cicco (carminedecicco) persona che segue con immenso coraggio e pazienza il mio blog
arturo (destinazione cuore stomao e cervello) mai banale
giardigno65 (zenzeroguru) bel blog really
Miss Moneypenny (missmoneypenny.myblog.it) deliziosa incoraggiatrice
strega Athena (/strega-athena.myblog.it/) dal primo mandi in poi non la si ferma più
manxuetagerb (manxuetagerb) molto promettente
botta e risposta (bottaerisposta.wordpress.com ) e me logodo proprio sto blog
Girasole (via000.wordpress.com) la poesia è poesia
A presto
B
Bologna sotto la pioggia (I out of III)
Mi piace svegliarmi con la musica. La musica penetra pian piano nella mia mente, mi strappa lentamente dal sonno e dai sogni. La musica rischiara. Cosi mi alzo di buon umore. Questo è importante. Me lo diceva sempre anche mia madre “Mattia, un sorriso all’alba e tutto andrà bene, credimi...”. Il buonumore dura però solo qualche minuto e solo perchè le sonate di Mozart per piano sono dei piccoli capolavori. Il vecchio Amadeus le aveva scritte per clavincembalo e poi sono state adattate per piano. Uno lavora tutta una vita e poi il frutto del tuo lavoro finisce nelle mani di un altro che lo cambia, magari lo snatura. E’ un po' quello che mi è successo con te. Ho lavorato tanto per questa casa, per questa vita, poi è arrivato un altro e tutto è finito. Eri il mio capolavoro. Ogni mattina la stessa storia. Tra un andante cantabile ed un allegretto della sonata n.10 K330 bevo il caffé e ti penso come se tu fossi qui seduta accanto a me . Lo so che adesso starai bevendo il caffé da un’ altra parte. Cristo non ci si abitua mai al dolore. Almeno c’è il lavoro. Poi oggi la giornata sarà particolarmente lunga, mi tocca arrivare a Bologna. Proprio a Bologna. Pazienza, è lavoro. Mi ricordo che non mi chiedevi mai nulla del mio lavoro. A te bastava che tornassi a casa. Ti piaceva prepararmi tutti i giorni la giacca e la cravatta sulla sedia dell’ingresso. Questo è l’aspetto del mio lavoro che non mi piace. Ogni giorno giacca e cravatta, mai in jeans e scarpe da ginnastica, mai sportivo o con la barba lunga, mai trasandato, sempre impeccabile, rassicurante ed efficiente. E’ la solita questione di immagine, di contatto con il pubblico, la gente. Il dirigente di zona me lo ha sempre spiegato chiaramente, fasciato nel suo bel doppiopetto grigio, con le sue scarpe inglesi, e senza l’ombra di un contropelo fatto male o di un taglio sulla faccia lucida di cremine antirughe: “La gente deve immediatamente fidarsi di lei Donati, subito, alla prima occhiata. Si ricordi che lei non é più un uomo, ma un simbolo e i simboli sono sempre impeccabili. Gli uomini no, ma i simboli si!”.
L’auto grigia esce lentamente dal cancello della villetta a due piani affacciata sul lungomare. La villetta è nuova, con due grandi vetrate ai lati della porta di ingresso, ma stranamente il giardino è pieno di grandi alberi, come se a villetta fosse stata costruita li in mezzo o fosse un buon restauro di un vecchia casa al mare, magari in stile liberty come ce ne sono tante da quelle parti. In realtà era una villetta degli anni 50. Nonostante i lavori fatti si intuisce ancora l’architettura originaria. Gli infissi sono bianchi come allora e rendono la facciata malinconica. L’auto si allontana rapidamente verso Nord.
Monday, October 25, 2010
Poche affezionate righe dal Nord (4 e basta)
Piovigginare in nero
Il Piemonte tra Torino e Cuneo è rilassante, dolce e silenzioso come un amore senza passione, ma ugualmente intenso. Poi nel silenzio, improvvisamente, esplode il rumore di un trattore che si avventura tra le vigne verticali o di qualche notizia che proprio non ti aspetti. In una casetta gialla dal tetto spiovente (qui ha senso, nevica, non come sulla litoranea in Puglia...) posata tra le colline dolcemente aspre di Pavese, vive una coppia come tante tra i 35 e i 40 anni, sposata e in attesa di un figlio/a. Una palese dimostrazione dell'esistenza di Dio. Lui è un farmacista, affetto da sclerosi multipla, cammina a fatica, ma direi che è molto più reattivo di certi farmacisti di mia conoscenza, comunque lo hanno licenziato dalla farmacia in cui ha lavorato per più di dieci anni. Conoscete farmacie in crisi? Segnalatele al WWF. Lei vive una gravidanza a rischio ed essendo palesemente incinta (poteva fingersi obesa, però...ingenua, se fosse stata terrona...) è stata licenziata dopo quattro anni di lavoro in nero per una agenzia immobiliare. Conoscete agenzie immobiliari sul lastrico? Segnalatele a Green Peace. Una palese dimostrazione che Dio a volte si distrae. Però da queste parti se non c'è Dio qualcuno comunque li aiuterà. De Amicis vive ancora tra questi monti, esistono piccole comunità in cui, senza grandi esternazioni, ci si aiuta, si troverà una soluzione, è un caso al momento isolato. Poi ci sono le Istituzioni (non è una parolaccia, controllate pure). Tutto questo ottimismo non cancella ciò che è accaduto: lavoro nero, donna incita licenziata, uomo malato cronico a casa. Questo tris d'assi non è stato servito dalle nostre parti, nel Sud medioevale, dove ormai non fa notizia, ma nel Piemonte agiato, non ricco ma vivibile, dove settori trainanti dell'economia (credo si dica così) trattano i propri dipendenti come farebbe l'ultima ditta edile sub-sub-sub-appaltatrice con dei disperati senza permesso di soggiorno. Piemone, Italia. Pioviggina tra le colline piemontesi, sui tetti di tante piccole e medie aziende e agenzie e farmacie, pioviggina in nero of course, in realtà c'è il sole. Pioviggina in nero in Piemonte e mi sento un po' più a casa, purtroppo.
Sunday, October 24, 2010
Poche affezionate righe dal Nord (3)
Poco, pochissimo sodio
Nella mia città al confine tra Piemonte e Lombardia è possibile captare sia il segnale di Rai Tre Lombardia che quello di Rai Tre Piemonte. Così, con abile zapping posso sapere in contemporanea cosa accade sia a Milano che a Torino. Di solito, però, indugio sul Tg Tre piemontese perché Torino è una città sorprendente e misteriosa pur avendo strade dritte e senza curve e poi perché l’accento dei giornalisti devoti a San Giovanni è molto più piacevole di quello dei devoti di Sant’Ambrogio. E poi il look è diverso. Le signore giornaliste piemontesi d.o.c. indugiano in abiti che mia mamma usava (forse, scusa mamma) negli anni 60’-70’, mentre i signori giornalisti si servono da barbieri che propongono ad un cinquantenne una pettinatura con riga al centro e tendine laterali…insomma, qualsiasi notizia è più dolce quando a riferirtela è gente cosi scanzonata e allegra. Qualche giorno fa la notizia dell’ennesima azienda manifatturiera con una cinquantina di operai che chiude i battenti. Tenete presente che negli ultimi quattro anni questo tipo di notizia, insieme agli incidenti stradali, è la più frequente sulle sponde del Po. Quindi tutto nella norma. Invece no. Questa ditta produce etichette per le acque minerali, le etichette serissime che ti dicono se l’acqua che bevi ha una o due particelle di sodio o ti farà occupare (forse) più spesso la toilette o ti farà essere più bello dentro e fuori, insomma quell’insieme di ca…stupidaggini che servono a spendere soldi che si potrebbero risparmiare. Tutto qui? No. La ditta in questione è una parte sana di una azienda francese dichiarata fallita da un tribunale francese (bien sur) per cui, per questioni meramente burocratiche-alchemiche la cassa integrazione per i disgraziati italiani arriverà tra sei mesi perché la controparte (il fallito francese) non vuole mollare un euro e non vuole che il fallimento sia dichiarato da un tribunale italiano. E allora? Allora arrivano i nostri, gli enti locali (regione, provincia e comuni dell’area) che si impegnano a siglare un’ intesa e pagare cash la cassa integrazione. Cinquanta famiglie tirate fuori per i capelli da una brutta situazione e poi non è detto che la piccola azienda non possa risorgere dalle sue ceneri, una volta staccata dalla multinazionale. Due considerazioni di cui una antistorica, forse: 1) tu lavori molto e lavori bene, poi qualcuno a due -tremila chilometri sbaglia qualcosa e tu te ne vai a casa con le tue pezze a nascondere le pudenda (vi ricorda qualcosa?); 2) da noi, gli enti locali, messi essi stessi con le pezze nelle aree critiche (scusi Sig. Sindaco, ma it is a matter of fact), avrebbero potuto aiutare qualcuno? La prossima volta che al supermercato controllerete dalla distanza di un centimetro il contenuto di sodio della vostra acquetta minerale magari ci penserete. Magari non troverete più l’etichetta.
Friday, October 22, 2010
Poche affezionate righe dal Nord (2)
Il mio centro estivo era situato in via Catania angolo Via Dante, poco prima del cavalcavia della Bestat. Si estendeva a Nord sino a Via Siracusa e ad Est sino a Via Solito. Via Catania è ancora una stretta via incastrata tra alti palazzi degli anni 60’ che creano una specie di ombroso canyon urbano in cui la luce estiva arrivava attenuata grandemente. Al termine del periodo scolastico, all’inizio di Giugno, dopo aver ritirato finalmente la pagella prima grigia e poi azzurra con i voti segnati ancora a penna, io e mio fratello eravamo finalmente liberi. Liberi di andare a scorazzare in pantaloncini corti con i nostri amici nel canyon, nel nostro centro estivo, giocare con le biglie di vetro tra le buche dell’asfalto o a pallone o a nascondino o a prenderci a botte o a tirarci pietre con i ragazzini che arrivavano dalle case occupate della Bestat a minacciare il nostro territorio. Sempre attenti a non essere investiti da qualche auto. Insomma liberi, liberi sino all’ululato materno che ci richiamava a casa per il pranzo o la cena, o per quando ritornava nostro padre dall’Arsenale. Quelle giornate in realtà monotone ci hanno insegnato molto, quando al mare ci si andava solo il sabato e la domenica alla marina di Lizzano (che viaggi eterni!), quando c’era la tv dei ragazzi. Imparavamo tutto e non sapevamo niente. Qualche giorno fa sono stato ufficialmente invitato da mia figlia di sei anni alla festa di chiusura del suo centro estivo. Ore 15.30, trentadue gradi umidi, inforco la bici e dal lavoro raggiungo il centro estivo che dista circa due chilometri. Una cooperativa di giovani insegnanti regge per quattro settimane l’urto frontale di una sessantina di bambini dai 4 ai 6 anni asserragliati in una scuola materna comunale che apre i battenti alle 7.15 e chiude alle 17.30 grazie ai collaboratori scolastici (bidelli) pagati dal comune. Iscrizione a Maggio e graduatoria. Tutto a pagamento, of course, ma il prezzo è ragionevole per avere in cambio giornate fatte di giochi, canti, risate, gavettoni e qualche lezioncina varia, in un ambiente pulito e sicuro, in assenza di nonni lontani mille chilometri (fisicamente). Prezzo ragionevole per poter lavorare tranquilli come la maggior parte delle coppie che ho visto nel salone del centro estivo. Molti locali, qualche meridionale, pochissimi extracomunitari. C’è anche un bambino egiziano con un grave handicap psicofisico con la sua brava maestra di sostegno. Penso al sollievo di quei genitori e ringrazio chi di dovere per averci evitato un dolore del genere. Poi penso che il sindaco della mia nuova città è leghista e ha la mia età (40 anni). Non si finisce mai di imparare. Inizia una piccola recita su Pinocchio, i bambini cantano“il Gatto e la Volpe” di Bennato. Dai disegni sulle pareti imparo che per mia figlia sono molto importanti il suo Nintendo e il suo criceto e rivedo me e mio fratello con le nostre biglie di vetro.
Thursday, October 21, 2010
Poche affezionate righe dal Nord (1)
Ieri sera mi sono divertito molto con il film "Benvenuti al Sud" con Claudio Bisio. E allora faccio outing o quello che è: oui, je suis du sud, sono meridionale anche se vivo da 23 anni prima al Centro-Nord e poi al Nord. Molti stereotipi che ho visto narrati nel film mi sono familiari (da entrambe le parti) cosi come mi è anche familiare (per fortuna) l'amicizia profonda che si instaura tra persone di radici diversissime, ma che sanno aprire cuore e cervello (e stomaco too). Qualche anno fa ho scritto brevi articoli, in realtà lettere, per un giornale locale della mia città natale, per far conoscere alcune esperienze di vita del NORD ai terruncielli. Ne sono venuti fuori degli schizzi semiseri che vi propongo. Spero vi possano piacere.
Strisce pedonali mutanti.
Devo arrivare in tempo per riprendere mia figlia da casa della tata. Come sempre sono in ritardo. Minuti di ritardo uguale soldi in più da pagare. Accelero. Poi mi suona il cellulare. Che è nella borsa da lavoro e non in tasca come di solito. Cerco un posto per accostare. Non crediate che lo faccia per la sicurezza. Ho il bluetooth, ma non lo uso mai. Vi dirò di più, mi autodenuncio, parlo al cellulare mentre guido, come l’80% di quelli che conosco, e non sono meridionali anarchici ed incivili come me. Il problema è che non posso raggiungere la borsa guidando, questione di geometria euclidea. Spazio libero vicino all’ospedale, accosto in scioltezza, quattro frecce e via alla ricerca del sacro cell. Trovato! Pigio un tasto qualsiasi per rispondere e…qualcuno batte violentemente sul finestrino dal lato passeggero, quello verso il marciapiede. Le coronarie sono in ottima salute e quindi ho solo il tempo per cominciare ad arrabbiarmi. Un signore intorno alla settantina con panama bianco e bastone si agita muto. Almeno io non sento cosa dice, so solo che minaccia di colpire la mia auto col bastone e non mi piace. Leggo dalle sue labbra la parola “strisce”. Mi dimentico del cellulare e come ogni maschio italico spengo il motore e scendo inferocito dall’auto. Il vecchietto ora ha il sonoro, un sonoro calabrese aspirato e agitandosi al limite dell’ictus mi urla: “Non si parcheggggia sulle strisceee!!!” “Ma che strisce?!” penso. Poi guardo per terra e il baratro del peccato mi si spalanca sotto i piedi: si, mea culpa, ho parcheggiato sulle strisce per qualche secondo, giuro, non lo farò mai più! Cerco di spiegare il dramma interiore che vivo, ma il vecchietto riparte sempre più agitato “Non si parcheggggia sulle strisceee!!!”. Delle persone rallentano il passo incuriosite. Comincio a sentirmi in imbarazzo, anche se ho l’aria della persona per bene, rasato e in giacca e cravatta, mi guardano come se fossi un punk-rom-accattone-extracomunitario-drogato. E reagisco alzando la voce: “E allora…la finiamo? E che modi … Esagerato…un attimo e vado via!!!”. Un vero signore. Il vecchietto inforca gli occhiali e ricomincia “Non si parcheggggia sulle strisceee!!!” e aggiunge estraendo il suo cellulare “ora chiamo i carabinieri…”. Da vero signore gli ho detto cosa potesse farne del cellulare che aveva in mano e sono risalito in auto andando via. Il mio cellulare invece parlava con accento siculo. La tata era in linea “Prrrooontooo! Prrrooontoooo!” Dimmi Rosetta, che c’è? ”A casa sono con la bambina…”. Meno male, tanto casino per niente. Much ado about nothing. Tolgo le quattro frecce e ripenso al vecchio calabrese in panama. Ma che voleva? Perché proprio a me? Un uomo cresciuto come me nel Sud pirata ha reagito cosi ad un parcheggio brevissimo sulle strisce pedonali. Perché? La sua indolenza, il suo lasciar fare, lasciar vivere meridionale si è trasformato in un rabbioso e grottesco rispetto talebano delle regole. Non si parcheggia sulle strisce, ma quella telefonata poteva essere la più importante della mia vita. In quel vecchio emigrante era cambiato, mutato invece il senso delle cose. “Non si parcheggggia sulle strisceee!!!”. La regola è più importante della persona. Da noi laggiù la persona è più importante perché le regole sono accessorie. Diventerò cosi anche io tra 30 anni? Intollerante? Possibile che non esista una via di mezzo, un compromesso, una tregua tra persone e regole? Intanto ricordate:“Non si parcheggggia sulle strisceee!!!”.
Tuesday, October 19, 2010
Racconto in tre puntate (in attesa di riprendere il libro) - TRE e fine
“Mastrantonio... Mastrantonio... sveglia! Svegliati, svegliati!!!”
La voce arriva nel bel mezzo di una tempesta in mare, con la barca che rolla come impazzita. La necessità di vomitare é bloccata dal pensiero che il vestito buono che indossa si potrebbe rovinare. “Ma che ci faccio in mezzo al mare col vestito buono? Sto sognando...si sto sognando... Oh cazzo, ma io stavo in commissariato! Mi devo svegliare, mi devo svegliare!” La luce della lampada da tavolo gli entra negli occhi e gli brucia ogni pensiero.
“Mastrantonio, che facciamo? Dormiamo in servizio, eh!?”
Il commissario Bertolaso ha poggiato la sua voluminosa pancia sulla piccola scrivania e si risistema i pantaloni tirandoli dalla cintura “No, no commissario... stavo finendo il rapporto sull’ospizio...” “Casa di riposo per vecchi babbioni vuoi dire...va bé...da quand’è che non dormi tu?” “Quasi quattro giorni. Sto finendo di preparare un esame e ho poco tempo”.
“Ercole, se continui cosi ti beccherai una pallottola o un colpo di coltello da qualche fottuto spacciatore e ti perderai pure la ragazza...” “Veramente non ce l’ho la ragazza...” “Ecco, vedi? Con il lavoro che fai a due lire al giorno voglio vedere quella strafiga che si mette con te...”. Il commissario si ritira su i pantaloni dalla vita ”...del resto fai bene a studiare, cosi te ne puoi andare via da qui e fare carriera. Bravo, bravo!”. La due pacche sulla spalla non sono molto convincenti, ma alle dieci di sera, in un commissariato quasi deserto, non è facile trovare di meglio. “Finiscimi il rapporto, su, che poi vai a dormire o a studiare, come preferisci, anche se io personalmente ti suggerisco una bella scopata che risolve molti problemi. Ciao!”. Il commissario Bertolaso, che tutti chiamano Big Ben per via della sua pancia esibita e della mania di guardare continuamente l’orologio, si allontana e ripensa alla bella signora Rinaldi, bionda come quella direttrice strabica. Il commissario guarda l’orologio e affretta il passo verso l’uscita. All’ispettore Mastrantonio non resta che tentare di mettere in fila gli avvenimenti del pomeriggio e provare a terminare il suo rapporto. Il cursore sullo schermo del computer lampeggia stanco e ipnotico, poi improvvisamente comincia a viaggiare. “Il ritrovamento della vedova Zaccheo e del signor...no, cavalier Musatti è avvenuto in circostanze fortuite nonostante il vasto dispiegamento di forze messo in campo all’uopo di ricondurre gli scomparsi in seno alla struttura sanitaria presso la quale erano precedentemente allocati. I colleghi della volante 15 hanno ricevuto una richiesta di intervento in zona “Acquario di Genova”...”
“Già, i colleghi sono intervenuti per un tentativo di rapina di un albanese clandestino e si sono ritrovati con una vecchietta che li ha aggrediti dicendo che il ragazzo non stava bene di testa, che non voleva fare nessuna rapina. Poi i colleghi si sono accorti che la vecchietta era in pantofole e non aveva documenti. Indecisi se andare in commissariato o in ospedale, li hanno portati tutti in commissariato con la vecchietta che parlava al suo amico Giorgione l’albanese e gli suggeriva di tagliare barba, capelli e unghie per trovare lavoro più facilmente. Alla fine, la vecchietta e il cavaliere sono stati riportati alla casa di riposo. La vecchietta, incazzatissima, ci ha confessato che all’inizio era uscita per una passeggiata chiarificatrice con il cavaliere e che poi aveva pensato di affogarlo al porto vecchio per la sua cupidigia, sì, ha detto proprio cupidigia. Alla fine il povero Giorgione, l’albanese, l’aveva distratta ed aveva finito con il cambiare idea. E giù lacrime, tutti a piangere! E io cosa scrivo nel rapporto: sequestro e tentato omicidio? Meno male che né la direttrice né i parenti del cavaliere hanno sporto denuncia. In fondo il vecchio rincoglionito e la vecchietta erano solo un po' disidratati....Ahh, basta!!! Non ne posso più di ste storie, non ne posso più!”. All’improvviso, ricordandosi del consiglio del commissario, Mastrantonio tira fuori dal cassetto il suo manuale di Procedura Penale e cerca, sul retro della copertina, il numero della sua amica dai capelli rossi, quella ragazza di Giurisprudenza che gli passa sempre gli appunti e che non è bella, ma è simpatica ed è piena di lentiggini e sorride sempre.
“Ciao Beatrice, sei tu? ...Scusa se telefono a quest’ora...no, non è successo nulla, è che mi chiedevo se magari, cosi per dire, ti piacerebbe andare a bere qualcosa...quando? Mmmhhh…pensavo… stasera, adesso...si lo so che domani sei in Facoltà...ah, sei già a letto...cosa leggi?...no, non l’ho letto, no ...e con l’esame martedì non riesco a leggere nemmeno l’ordine di servizio figurati...no, secondo me lo canno sicuramente, siii mi bocciano sicuro, non mi ricordo niente...devi ripassare anche tu?...io con chi ripasso?…con i miei colleghi? ma figurati...certo che mi piacerebbe ripassare con te, quando? ...adesso si certo, tanto non ho sonno, figurati abituato ai turni di notte...si mi ricordo dove abiti...arrivo, certo...porto una pizza, se hai fame...si certo, arrivo...margherita? Ben cotta? Va bene. Ciao...”
Suor Maria Wanabe richiude la porta della camera 112 dopo aver controllato che la signora Diletta si sia addormentata. Il fruscio dei suoi passi si perde nel buio del corridoio e solo allora la signora Diletta si alza dal letto. La vecchietta, presa la foto del marito dal comodino, si va a sedere sulla poltrona davanti al balconcino. Culla in grembo la foto e la bacia. “Hai visto amore che bello spavento che gli ho fatto prendere? Sei contento? Ti voglio tanto bene Aurelio, te ne voglio ancora tanto e mi manchi. Buonanotte amore”.
Monday, October 18, 2010
Racconto in tre puntate (in attesa di riprendere il libro) - DUE e 3/4
“...tua. E’ stata colpa tua se poi non abbiamo avuto altri figli. Lui è rimasto disoccupato ed è cambiato. Non rideva più e non facevamo più all’amore. Lui prima era sempre allegro e pieno di vita, delle notti mi svegliava e mi addormentavo solo mezz’ora prima della sirena dei cantieri. Dopo quel dicembre il mio stipendio non bastava mai e poi hanno chiuso anche il mio reparto. Meno male che c’era il dottor Barzanti. Te lo ricordi il dottor Barzanti, vero? Era quello che curava i poveri, i pescatori, i muratori e si faceva pagare solo dai signori. A lui piacevano le navi e aveva una collezione di navi in bottiglia che gli costruiva mio marito e che lui poi regalava agli amici e ai nipotini. I miei figli hanno mangiato il pane delle navi in bottiglia per tanto tempo. Mio marito é cambiato perché non riuscivamo a vivere, qualcosa si è rotto nel suo orologio, qui dentro, non aveva più forza, non ci siamo più voluti bene. Tutto per colpa tua, bastardo...tu e i tuoi soldi, e adesso a che ti servono? Che ne fai adesso che hai bisogno che qualcuno ti faccia pisciare perché non ce la fai da solo?”.
La rabbia della donna spinge la sedia a rotelle sino al porto vecchio, verso l’Acquario. Le auto rallentano e frenano mentre attraversa la strada, poi la dimenticano nello spazio di un clacson. Una folla vomitata da autobus e auto li circonda e tra la gente che entra ed esce dall’Acquario si dirigono verso la Capitaneria di porto, invisibili a tutti tranne che a Irvhani. Si avvicinano a una panchina con dei tedeschi che prendono il sole. I ragazzi biondi a torso nudo le dicono qualcosa, ma la vecchietta sorride e non capisce. I ragazzi lasciano la panchina invitandola a gesti a sedersi. “Grazie, grazie, siete gentili, grazie, sono proprio stanca, grazie, ho camminato tanto e questo qua è pesante da portare, tanto pesante”. I tedeschi sorridono, rispondono con un ciao e si confondono con il resto dell’umanità. La vecchietta indica un punto oltre le teste della folla. “Vedi quella palazzina marrone lì davanti, sul molo? Quelli sono i vecchi magazzini del cotone. All’ultimo piano c’è un museo, un bel museo. Ci sono andata con i miei nipotini a Natale. Ci sono alcuni modellini che ha fatto mio marito. Sono bellissimi e io mi sono messa a piangere quando li ho visti. Capisci vecchio bastardo? Mi sono messa a piangere davanti ai miei bambini!”. Una presenza al loro fianco richiama gli occhi lucidi di Diletta. Un ragazzo con barba e capelli lunghi e un paio di jeans sporchi la guarda. “Dammi i soldi vecchia!”. La voce della vecchia esce dura dalle labbra strette: “I soldi te li puoi scordare, cretino! Se mi metto a gridare qui, non fai in tempo a scappare che arrivano i carabinieri “. Gli occhi della vecchia si sono accesi come tanti anni fa, in cantiere. “Ho detto dammi i soldi o ti ammazzo!”. Da sotto la maglietta di Irvhani è apparso un lungo cacciavite. “Cretino, ma credi che una vecchia come me ha paura di morire? Tanto io sono sola e quello che dovevo fare l’ho fatto. Vedi questo qui? “e indica il vecchio che respira a fatica sulla sedia a rotelle, “questo ha un sacco di soldi e dovevo parlargli da sola da tanti anni. Adesso l’ho fatto, quindi posso pure morire, tanto soldi da darti non ne ho. Mia figlia non mi dà neanche mille lire per fare la carità !”. Il giovane non sa cosa fare con quel cacciavite in mano e qualcuno nella folla si è voltato a guardarlo. In testa ha solo il buio e il freddo di una notte in mare. Si è ritrovato in acqua con suo fratello che non sapeva nuotare. Ha tentato di tirarlo a se, di dargli una mano, ma gli è scivolato via, aveva le mani bagnate e fredde, tanto fredde. L’ha chiamato, ha urlato il suo nome tante volte, anche dalla spiaggia poi piangendo è fuggito via e ora è lì. Ha un cacciavite in mano e niente dentro. Si copre il viso con la mano e le sue spalle cominciano a tremare nella luce calda di un pomeriggio d’estate a Genova, di fronte al mare. La vecchia allunga la mano verso la sua che stringe ancora il cacciavite. “Che hai adesso? Su vieni qua, siediti.” La vecchia lo tira dolcemente a se e batte sul legno della panchina per invitarlo a sedersi. Il giovane si siede, nonostante la barba non avrà neanche vent’anni. “Lo sai che tu mi ricordi un ragazzo di mia figlia Giulia, un bel ragazzo. Si chiamava Giorgione. Veramente il suo nome era Giorgio, ma gli amici lo chiamavano Giorgione per certi attributi, non so se mi spiego...” . Il ragazzo stringe ancora il cacciavite anche se lo ha dimenticato. Si tocca il petto dicendo “Il mio nome è Irvhani”. “E che significa?” “Irvhani! E’ un nome!” “Va bene, va bene non t’arrabbiare. Volevo sapere il significato in italiano. Ti spiace se ti chiamo Giorgione? Gli somigli tanto, va bene ? E’ più facile” “Ma io mi chiamo Irvhani!”
“Fermo! Polizia! Metti giù quel cacciavite!”
Racconto in tre puntate (in attesa di riprendere il libro) - DUE e 1/2
“Allora sono io, sorella”. La suora guarda dritto negli occhi Mastrantonio per accertarsi che non stia mentendo e gli bisbiglia qualcosa, quasi avesse paura di rivelare un segreto.
“Guardi sorella, parli pure a voce alta altrimenti non capisco”.
La suora allora indica con lo sguardo i coniugi Rinaldi. L’ispettore si spazientisce. “Sorella parli pure, non si preoccupi le ho detto!”.
“Ecco, la Vergine Maria mi é testimone che io sono molto affezionata alla signora Diletta anche se si rifiuta sempre di recitare il rosario con noi, ma per il resto è proprio brava, non si lamenta mai, solo ogni tanto tratta male certe altre signore e lo fa perché dice che sono delle vecchie...istupidite” La suora sorride scoprendo una fila di denti bianchissimi e riprende fiato “…però la signora Diletta è anche molto buona con certi ospiti che hanno bisogno di aiuto. E’ fatta cosi, è una rosa con le spine, anche se io le ho detto tante volte che la nostra Rosa Mistica ama le persone come lei, ma che non deve trattare male le signore istupidite, ma del resto é fatta cosi, ma è tanto brava...” . Mastrantonio si riprende dallo stordimento e tenta una difesa contro quel torrente in piena. ”Sorella, sorella è interessante, ma veniamo al punto...” Sorella Maria si offende e smette di sorridere. “Va bene, va bene ci arrivavo se lei mi faceva finire. Insomma oggi la signora Diletta quando è arrivata aveva un musone lungo lungo, infatti ho pensato che presto litigava con qualcuno invece dopo cinque minuti l’ho vista tutta felice e sorridente che parlava allegra e mi è sembrato strano, tutto qui”. Mastrantonio richiude il suo taccuino, che fa molto investigatore, ma che é praticamente bianco perché lui é abituato a tenere tutto a mente e con un sorriso licenzia sorella Wanabe. “Bene, grazie, è tutto molto utile. Se avrò bisogno di lei la farò chiamare, grazie”. La piccola figura di suor Maria Wanabe esce dalla stanza senza salutare e si allontana nel corridoio. Nel silenzio della casa sembra di sentire un mormorio, forse la litania di qualche vecchietta o forse suor Maria arrabbiata. “Torniamo a noi, signori Rinaldi. Signora, sua madre era casalinga…insegnante…insomma cosa faceva prima?” I capelli biondi della signora Rinaldi si staccano dal petto del marito e i suoi occhi arrossati cercano un punto d’appoggio nella memoria. La sua voce esita un attimo. “Mia madre faceva l’operaia”. “Operaia?” Mastrantonio fa fatica ad immaginarsi la piccola donna in una tuta blu, una tuta sporca di grasso come quella di suo padre che riparava auto in un piccolo garage poco distante da casa. “Si, operaia, si occupava di alcuni meccanismi di precisione ai Cantieri Careggi, un mestiere per gente precisa con le mani sensibili e una buona vista. Sa, mio nonno era un orologiaio a Cosenza, mia madre è nata lì, poi mio nonno si è trasferito qui in Liguria dopo la guerra. Mia madre ha imparato il mestiere di mio nonno, poi ha incontrato mio padre ai Cantieri…”. La donna guarda in direzione della foto, la prende, la stringe a se. “Papà era un modellista, costruiva i modellini di nave per i progettisti. Era molto bravo e poi era una persona sempre allegra. E’ morto dieci anni fa. Si è spento come una candela, alla fine non ci riconosceva più, e da allora mia madre vive per i suoi nipotini, i figli di mio fratello Mario, che vive in Sicilia. Sa, Mario è un militare...lei avrebbe preferito vivere in Sicilia, ma non si vuole separare dalla tomba di suo marito. Dice che altrimenti papà si sentirà solo, abbandonato e non se lo merita...e poi mia cognata ha un bel caratterino. Quindi mia madre vive con noi”. Due lacrime trovano la loro strada sul volto della finta bionda.
“Voi non avete figli?” Appena formulata la domanda un voce gli urla nella testa “Domanda inopportuna, bella cazzata, complimenti, ma quando impari a pensare prima di parlare ispettore di questa minchia!!!”
“Mi scusi signora, non sono fatti miei...” “No, no non importa. Vede noi non possiamo avere figli. Non si preoccupi, abbiamo deciso di adottarne uno, sa stiamo preparando tutte le carte, sa la burocrazia, ma non importa, l’importante è riuscire, sa...”
“Certo, certo...dottore possiamo vedere la camera del Cavaliere e chiudere a chiave questa, per favore?”
Il medico è l’ultimo ad uscire e sfiora la mano del signor Rinaldi con la sua. I loro sguardi si incrociano per una frazione di secondo. Il balenare di blu e verde increspa le labbra del giovane. L’uomo si gira e con un braccio avvolge le spalle della moglie.
“Perché mi sudano sempre le mani? Perché? Le lavo ancora e ancora, però sudano sempre. Prima non era così. Prima di quella notte non è stato mai così. Quella notte avevo le mani bagnate. Non è stata colpa mia, non è stata colpa mia. Lo sanno tutti che non è stata colpa mia”. Irvhani cammina tra le strade e i vicoli di Genova dove, in alcuni punti, puoi toccare entrambi i lati del vicolo allargando le braccia. Ogni tanto alza lo sguardo al cielo e guarda i rettangoli stretti di azzurro mezzogiorno, senza nuvole e vorrebbe essere altrove. Ha fame. E’ mezz’ora che segue quella vecchia con le pantofole che spinge con rabbia un vecchio in sedia a rotelle. La vecchia in pantofole deve essere pazza. Spinge la sedia e parla ad alta voce nell’orecchio del vecchio che muove appena la testa per allontanarsi dall’urlo. La vecchia parla e continua a parlare, ma solo Irvhani e il vecchio la ascoltano, gli altri scivolano via come l’acqua sporca che scende da qualche vicolo laterale e allaga tutt’intorno.
Friday, October 15, 2010
Racconto in tre puntate (in attesa di riprendere il libro) - DUE
“Pressione sistolica 174, diastolica 130. Hai i trigliceridi che ti escono dagli occhi. Fumi come un turco, tra pranzi e cene di lavoro non so quanto vino e superalcolici ti scoli. La tua sola attività fisica è rappresentata da un rapporto settimanale, e non tutte le settimane, con tua moglie e dallo sbattere i pugni sul tavolo con i tuoi impiegati. Infine, sei quasi obeso e pretendi anche di campare a lungo?”. Cosi il suo vecchio amico Annibale, nonché medico di famiglia, lo aveva arringato una settimana prima. Che allegria! Quarantatre anni e già da buttare via! Cosi da una settimana, durante la pausa pranzo, niente pranzo e corsettina ridicola nel parco panoramico vicino all’ufficio, passando discretamente dal retro “per non farsi prendere per il culo dagli impiegati. Che vita di merda!“. Stessa storia anche oggi, ed anche oggi, strizzato nella tutina nera, la sensazione di morte imminente dopo cinque minuti di corsa. Poi li ha visti seduti sulla panchina. Lui sulla sedia a rotelle in realtà, vecchissimo e completamente calvo, una giacca da camera con uno stemma, gli occhi socchiusi e un rigagnolo di bava che scivola via da un angolo della bocca. Lei piccola, con il volto pieno di rughe profonde come tagli e i capelli nerissimi. La vecchietta é cosi piccola che da seduta i suoi piedi non toccano terra e le pantofole penzolano nel vuoto. Le pantofole! L’uomo grasso ha rallentato e vorrebbe chiedere se i due vecchietti hanno bisogno di aiuto. Lo sguardo della donna lo scoraggia decisamente. Passando loro accanto ascolta la voce femminile monotona che parla a chi sembra non sentire e forse non sente sul serio. “...e laggiù, in via Saffi è nata Giulia, mia figlia. E’ nata d’inverno e tu non te lo immagini il freddo che faceva in quella casa, con il libeccio che entrava da sotto la porta, non te lo puoi immaginare. Poi è nato anche Mario, ma lui...”. L’uomo grasso ricomincia a correre con più forza. Si volta solo un attimo, senza smettere di correre, e ha l’impressione che la vecchia lo guardi. Un brivido leggero gli percorre la schiena, forse un infarto imminente “No, no io non voglio diventare cosi...no...meglio morire subito, anzi appena torno in ufficio chiamo l’agenzia di viaggi, voglio andare in vacanza per un mese, magari su un’isola...lontano da qui, da tutti...”. Si volta ancora e i due vecchietti non ci sono più. “Madonna mia, pure le allucinazioni, madonna mia bella...”.
“Da questa parte prego”. Il giovane medico dagli occhi blu scorta l’ispettore Mastrantonio e i coniugi Rinaldi nell’ala est della casa di riposo. A destra e a sinistra lungo il corridoio, si affacciano porte, interrotte da grandi finestre con tendine chiare. Ovunque corrimano e luci di emergenza. Sulle porte accanto al numero e sopra lo spioncino i nomi degli ospiti. “Per rendere meno anonima la loro stanza” spiega il medico. “Fate piano per favore, molti nel pomeriggio riposano e io non voglio allarmarli più del necessario”. Mastrantonio pensa sia il caso di cominciare a fare il poliziotto: “Dottore, lei conosceva bene gli scomparsi?” “Si , il cavaliere da molto tempo, mentre la signora Diletta l’ho vista solo un paio di volte...e questa è la sua stanza, la 112...prego”.
La stanza è piccola, con un balconcino che si affaccia sul giardino, una stanza adatta alla piccola donna dai capelli ricci e neri che l’ispettore ha osservato nella foto che gli è stata data e che ha trasmesso in centrale. Il poliziotto entra da solo, facendo segno agli altri di fermarsi sull’uscio. Una poltrona di fronte alla porta-finestra occupa quasi tutto lo spazio libero tra il lettino e l’armadio bianco. Sul lettino una valigia aperta e dentro abiti piegati e una foto incorniciata. Dal bianco e nero della foto emerge la figura intera di un uomo di circa 30 anni, una sigaretta che pende dalle labbra sorridenti, una camicia bianca e mani nelle tasche dei pantaloni larghissimi. La fotografia è stata scattata in una giornata di sole di molti anni prima, nessuna ombra sul viso sorridente dell’uomo dai tratti eleganti, grandi occhi, capelli cortissimi e un gran naso. Se fosse biondo potrebbe essere il fratello della donna che alle spalle del poliziotto si tortura le mani e vorrebbe piangere. “Quello è mio padre, mia madre non abbandonava mai quella foto, mai...”. La donna bionda si morde l’interno della guancia e nasconde il viso sul petto del marito. Gli occhi verdi di Berto Rinaldi scompaiono dietro le palpebre e il suo volto da Cristo alla colonna non sfugge al giovane medico, che comincia a osservarlo con maggior interesse. Nel suo campo visivo si affaccia il volto curioso e dagli zigomi alti di Suor Maria. “Ah, ispettore questa è la suora che si occupava delle esigenze della signora Diletta, sorella Maria Wanabe....”
La suora di colore squadra Mastrantonio “Signore, scusi, è lei il coll del signor poliziotto che é andato via per un’emergenza?”
“Come scusi?”
“Si, il coll del poliziotto che è corso via prima”
“Io sono un poliziotto, signora, cioè sorella...sono l’ispettore Mastrantonio. Si spieghi meglio, per favore , non capisco“
“Non so, il poliziotto con la pancia...” e mima una bella rotondità ventrale da donna incinta “ha detto di parlare con il suo coll...”
“Forse voleva dire collega sorella” interviene il medico che cerca di non sorridere stringendo le labbra.
Thursday, October 14, 2010
Racconto in tre puntate (in attesa di riprendere il libro) - UNO
Il pane delle navi in bottiglia
“Di un po'...non credi che tua madre si sentirà sola lì?”
La donna bionda seduta accanto accarezza un grosso anello e controlla che sulla superficie dorata non ci siano graffi troppo profondi. Gli risponde senza guardarlo. “Ma no... ma no.... figurati... starà con i suoi amici e non si sentirà sola per niente. E’ vero mamma che non ti sentirai sola lì, alla Casa, eh?”
Nello specchietto retrovisore appaiono solo i capelli ricci della vecchietta, tinti di un nero lucido. Sotto quei capelli un paio di occhi scuri, circondati da rughe profonde, guardano la Liguria aspra che si tuffa in mare nel pieno sole di Luglio. “Mamma mi senti?” La figlia bionda si è voltata aggrappandosi al sedile. “Mamma...mamma...!?”. La vecchietta minuscola guarda fuori e parla senza voltarsi. “Si, si, starò bene li, non ti preoccupare, andate in vacanza voi che siete giovani, non vi preoccupate, io starò bene...andate tranquilli”. La figlia si risistema nel sedile, impiccata dalla cintura di sicurezza. “Hai visto Alberto? Mamma è contenta”. Il tono della donna dichiara chiusa la conversazione. Alberto guarda la moglie, poi nello specchietto gli occhi neri e piccoli di sua suocera lo sorprendono per una attimo. Il buio di una galleria lo richiama a guardare le luci posteriori del Tir francese che corre verso Genova, mentre cerca di nascondere alla moglie un sospiro.
Lo studio ha due grandi finestre che si aprono sul giardino ombroso di lecci che, molti anni prima, hanno assistito alla guerra dall’alto della collina. Da allora, gli alberi sono cresciuti quasi abbracciati l’uno all’altro per lo spavento. La poca luce che penetra nello studio illumina una grande scrivania con molti cassetti vuoti, chiusi a chiave; “un pezzo pregiato si intende, di grande valore” aveva detto l’antiquario. Cornici alle pareti parlano di corsi di specializzazione, riconoscimenti della Regione, della Provincia, attestati di benemerenza del Sindaco, ex partigiano, e della Curia. Ex voto di una vita di successo. Peccato che la direttrice dal grande seno, in piedi dietro quella scrivania, sia strabica. “Strabismo di Venere” diceva sua mamma alle amiche in salotto, e la bambina grassottella con la voce nasale urlava “non ho gli occhi storti io!!!” e correva a nascondersi in camera. La moglie di Alberto è seduta con le lunghe gambe accavallate. La gamba destra oscilla nervosa e il bel polpaccio affusolato si allarga ritmicamente come un cuore pulsante e mentre parla gli anelli migrano tra le sue dita perfette.
“Io vorrei semplicemente sapere come è potuto accadere...come è potuto accadere...lei lo sa che la ritengo personalmente responsabile di tutto? Lei è responsabile, lo sa? Ha rovinato completamente le nostre vacanze! Non creda di cavarsela cosi...io andrò sino in fondo!!!”
La direttrice vorrebbe rispondere per le rime, ma si ricorda di essere una signora e cerca di controllarsi sistemando meglio il foulard sulla generosa scollatura. Nonostante questo, nella sua voce è percepibile una vibrazione isterica, leggerissima, ma sufficiente ad allarmare il trentenne in camice bianco accanto a lei. Il giovane, istintivamente, stringe a sé una cartellina dalla copertina blu di Prussia, “che si intona perfettamente con i tuoi occhi, Federico“, così gli aveva detto la direttrice una sera, qualche tempo prima.
“Guardi mia cara signora, in vent’anni di attività non è mai successo nulla di simile nella nostra casa per anziani che, come lei ben sa, è rinomata per
l’efficienza e per l’amore di cui circondiamo i nostri ospiti. Siamo sconvolti quanto e più di lei!” e allarga le braccia volendo includere nel suo dolore e stupore il medico presente, gli infermieri e gli inservienti filippini, i cuochi napoletani, le sedie a rotelle, i deambulatori lucidi, i muri, le cornici appese e gli alberi del giardino sotto i quali ex uomini con il cappello siedono guardando ex donne che non riconoscono.
“... no, mia cara direttrice! Lei non è sconvolta quanto me, visto e considerato che è mia madre ad essere sparita dopo poche ore dal suo arrivo in questa...in questa casa....”
“Senta signora, non le permetto di offendere il buon nome della nostra ...”
“Io del buon nome della vostra casa me ne frego! Voglio sapere, e lo voglio sapere ora, dove e finita mia suocera e di chi è la responsabilità!”. Entrambe le donne si voltano verso l’origine della voce e stupite osservano, quasi per la prima volta, l’uomo accanto alla finestra. Alberto Rinaldi è stupito più di loro di aver parlato. Di solito è un taciturno, ma oggi no. Per vivere fa il direttore di banca, come avevano desiderato i suoi, ma da bambino sognava di fare il pescatore. “Che idea cretina Berto! Tu sei un cretino!” cosi suo padre aveva definitivamente chiuso l’argomento molti anni prima.
“Signori vi prego calma, stiamo calmi...manteniamo la calma se no non si capisce niente...calma!”. La voce che arriva dall’ombra accanto alla seconda finestra è abituata a sedare liti e zuffe, più spesso con manrovesci scientifici e cazzotti balistici che con le parole, ma all’ombra pacifica dei lecci si addolcisce. Il commissario Bertolaso non porta la cravatta, come vorrebbe il signor Questore, ed ha una gran voglia di fumare uno dei suoi toscanelli puzzolenti per spegnerlo poi in faccia alle due donne. Tutte e due finte bionde, l’occhio esperto non sbaglia. Tutte e due abituate a comandare, un po' come sua moglie. In fondo é colpa proprio di sua moglie se si ritrova lì, ad indagare in una casa di riposo, invece che sul mostro di Firenze o su qualche mafioso. Ed è sempre colpa di sua moglie se guarda un po' troppo spesso l’orologio per non dimenticarsi di riprendere la bambina dal nuoto e il bambino dalla lezione di piano o viceversa.
“Care signore, guardiamo i fatti tralasciando le emozioni. Io sono qui perché due ospiti della casa sono spariti”. Il poliziotto estrae dalla giacca il suo bravo taccuino investigativo e lo sfoglia rapido. ”La signora Diletta Lopane vedova Zaccheo è sparita nella tarda mattinata di oggi. Si può pensare ad un allontanamento volontario, anche se non ci risulta che la signora sia affetta da Alzheimer o altro, giusto dottore?”
Il giovane si riprende dal torpore e la voce gli esce strozzata ”Si...si, certo, la signora Diletta non presenta nessuna sindrome neurologica rilevante nonost...”
“Ecco appunto. Quindi signore...”
“Mia madre è sanissima per i suoi ottantasette anni...”
“Certo signora certo, inoltre insieme a sua madre é sparito anche il signor...il signor...”
“Musatti, il cavaliere Musatti” La nota d’orgoglio nella voce della direttrice dovrebbe suggerire una maggiore attenzione ad poliziotto che vorrebbe dare la caccia a mostri di varia natura.
Il poliziotto schiocca le dita per richiamare all’ordine nomi e pensieri “Si, certo il signor... il cavalier Musatti. Ora, dato che il Musatti è immobilizzato su una sedia a rotelle da 5 anni e che è molto difficile che si sia allontanato da solo e dato che la signora Diletta è sparita in pantofole, forse, ma sottolineo forse, ci troviamo di fronte ad un caso di rapimento”.
Entrambe le donne portano le mani alla gola in un solidale attacco d’angoscia. “Ma noi, noi non siamo ricchi” pigola la bionda Rinaldi guardando nel vuoto “noi lavoriamo, come faremo...”
“Io credo che sua madre, la signora Diletta, si sia trovata invischiata suo malgrado. Magari era lì al momento del rapimento...magari ha visto tutto...direi che il ragionamento fila, non pensate? Ora signora direttrice...signora direttrice?”
“Oh si, si, scusi commissario...sono sconvolta...” La direttrice torna rapidamente dal suo viaggio fantastico tra prime pagine dei giornali ed interviste in prima serata e magari una puntatina al UNO Mattina e Porta a Porta, perché no! E perché non un libro su tutta la storia...
“Capisco, ma io ho bisogno immediatamente dell’elenco di tutti i dipendenti della casa e delle ditte fornitrici. In questi casi c’è sempre un basista, inoltre ho bisogno delle foto dei due vecchietti. Poi mi piacerebbe sapere se il cavaliere era, cioè é ricco o meno, se ha proprietà, immobili, barche... insomma tutto. A proposito i figli, i parenti del Cavaliere dove sono?”
“Li stiamo rintracciando, ma sono all’estero in vacanza. Sa, adesso sono loro, i figli, che amministrano la ditta del cavaliere. Il cavaliere era ...è...insomma faceva l’armatore. Ai suoi tempi il cavaliere era un uomo eccezionale, attivissimo...ed anche ricco, molto ricco e rispettato...e poi...”
“Si, certo, certo, dia tutte le informazioni al mio collaboratore che è fuori...Mastrantonio, Mastrantonio!”. Un giovane non molto alto appare sulla porta. Il nodo della cravatta é allentato, i capelli scomposti e i suoi occhi hanno appena finito di lottare contro uno sbadiglio. “Io devo andare, ho una faccenda urgente...sai...” gli dice il commissario Bertolaso mostrandogli l’orologio e strabuzzando gli occhi. Mastrantonio annuisce obbediente. Ercole Mastrantonio studia legge e porta i capelli sempre in ordine, ma tra tre giorni c’è l’esame di procedura penale e tra i turni di guardia e lo studio non dorme da settantadue ore ed adesso anche questo rapimento.
“Fatti dare tutte le informazione dalla signora direttrice...su veloce, io intanto mi scuso, ma altre incombenze mi chiamano urgentemente. Arrivederci a prestissimo. Signore, signori...”. Un mezzo inchino frettoloso ed è già fuori dallo studio. Cinque minuti al termine della lezione di nuoto, sette chilometri da percorrere nel traffico del tardo pomeriggio. Usare la sirena o no? Questo dilemma si agita nella mente del commissario mentre scende di corsa la bella scalinata della casa di riposo e per un pelo non travolge la giovane suora magra che sette giorni su sette somministra carità e brodino ai vecchietti. Suor Maria Wanabe, agile come una gazzella della sua savana, lo evita per un soffio e cerca di attirare la sua attenzione, ma il commissario è già all’auto e mancano ormai quattro minuti e quaranta secondi. ”Non ho tempo parli con il mio coll...”. Le ruote dell’auto slittano per un attimo sulla ghiaia e le sue parole si perdono sulla scia di polvere e sassolini. Quattro minuti e trentatre secondi. Suor Maria pensa ad un’emergenza e silenziosamente prega per la vita di quell’uomo, sgarbato ed agilissimo nonostante la pancia. “Chi sarà mai il suo coll? Sarà un nome in codice. Povera signora Diletta, lei che si rifiuta sempre di recitare il rosario...poverina ora, chissà dov’è. Oh santa Madre Maria, proteggila tu! Oggi era strana, molto strana, non trattava male nessuno, devo dirlo al coll del poliziotto...ma dove sarà questo coll...forse é il ragazzo che era con lui...”. Suor Maria Wanabe riprende il cesto di biancheria che aveva lasciato cadere, alza gli occhi al soffitto e torna a lavoro. Al piano di sopra Ercole Mastrantonio si è dato un contegno, ha risistemato il nodo della cravatta che la direttrice aveva fissato con troppa insistenza, ha trattenuto due sbadigli e con aria professionale ha cominciato il suo lavoro chiedendo un caffè :”...corto e forte, per favore”. La richiesta risuona nel grande studio come un autoritratto, meglio un’autobiografia.
Tuesday, October 12, 2010
Ho finito gli avanzi
Come un sol uomo
Fa un freddo cane anche se il cielo é limpido ed il sole é alto. Non c’é una nuvola tutto intorno e non c’è neanche vento. Le bandiere infatti restano appassite contro le aste . Qualcuno le agita e allora si riescono a riconoscere i vari gruppi. Li davanti ci sono i più giovani. Quelli vogliono stare sempre in prima linea. O forse li mettono li per un motivo. Miccia me lo ha spiegato una volta. Se il primo fronte, il primo muro, cede velocemente mentre le ali resistono i nemici avanzano rapidamente e poi si ritrovano davanti noi, più esperti e più forti, con alle spalle i fiondatori. A quel punto vengono circondati ed è fatta. Se i loro capi sono furbi invece, attaccheranno leggermente il muro principale, magari con i loro ragazzini, e martelleranno con la vecchia guardia le ali . Quelli sono dei gran bastardi.
Eventualmente noi scavalcheremo le nostre ali ed irromperemo contro la parte più dura del loro schieramento. Oggi ne perderemo molti, ma dobbiamo vincere, non ci restano tanti campi da conquistare. Se oggi vinceremo avremo diritto di saccheggio sulla città. Un tempo le città si saccheggiavano prima delle battaglie; ma il patto d’onore di dieci anni fa ha cambiato molte cose e noi ci siamo adeguati. In effetti era uno spreco di energie. Onore innanzitutto, forza e onore, sangue e onore. Se mio padre mi vedesse oggi qui sul campo, con ai lati i miei più cari amici, Miccia e Scuro, sarebbe orgoglioso di suo figlio. Oggi voglio vincere, voglio fare qualcosa per cui si parlerà di me e voglio farla con i miei amici, i miei fratelli, qui sotto questo sole freddo. Non è la prima volta che partecipo ad una battaglia e se Dio mi aiuta non sarà neanche l’ultima, ma ogni volta sento tanto freddo. Stanotte era più freddo mentre ci avvicinavamo, anche perché avevo sonno. Poi mi hanno fatto bere e mi sono riscaldato e, devo dire anche un po' ubriacato ed ho raccontato dei miei amori, cioè del mio amore. Che stronzo! Va bene, ormai è fatta e magari, se sopravvivo, questa é la volta buona di andarci con lei. Vedremo. Il vento si è alzato adesso, viene da ovest, porta odore di mare. Vediamo i loro vessilli spiegati, sono tantissimi, alcuni con il simbolo del leone giallo in campo rosso. Quello li in fondo, con il leone giallo e le spade incrociate è quello che voglio. E’ lo stendardo dei Sanguinari, il loro gruppo più scelto, i loro eroi. Guardo alla mia sinistra e poi alla mia destra e vedo solo i volti dei miei compagni di giochi, i miei amici in una fila di una cinquantina di giovani uomini dello stesso quartiere. Alcuni sono pallidi, hanno paura, è normale. Altri hanno già il viso duro della battaglia. Mi sorprendo ad urlare “Fratelli, li lo stendardo dei sanguinari! E’ nostro, è nostroooo, è nnnooostrooooo, noostroooooo!!!” Tutta la mia fila erompe in un ruggito, tutti agitano le armi e gli scudi. L’entusiasmo contagia le file davanti e poi quelle di dietro, qualcuno comincia a muoversi, ma i capofila anziani li fermano e li rimettono in riga a calci. Sento un filo di bava che mi cola dall’angolo destro della bocca. Ho i polmoni in fiamme e sento il battito del mio cuore nei timpani. Ad un tratto sentiamo i loro tamburi e l’eco è tremenda. Sembra una enorme marea che sta per abbattersi su di noi. Per un attimo le grida si affievoliscono, quasi si spengono. Vedo una pozza allargarsi ai piedi del ragazzo che mi sta proprio davanti. Si volta e lo riconosco, é un amico di mio fratello, per lui é la prima volta, non dovrebbe essere qui. Per fortuna cominciano i nostri tamburi e per un attimo sovrastano i loro. Tutti urlano e lo schieramento dei nemici ondeggia come smosso dal vento. Stringo l’arma e i miei muscoli sono cosi tesi che mi fanno male. Io e Scuro ci guardiamo, Miccia ci guarda, istintivamente ci avviciniamo, spalla contro spalla, come un sol uomo. Sta per cominciare e che cominci pure, perché non ce la faccio più. Siamo pronti all’urto. Ora o mai più. I tamburi tacciono di colpo e le grida si spengono rapidamente. Tutti hanno capito che la battaglia sta per cominciare. “Lilly ti amo” penso e mi sento stupido. Al centro del campo di gioco avanza un uomo vestito di nero con la sua scorta. “Lilly tornerò da te”. L’arbitro guarda i due schieramenti con un lento movimento del capo, prima a destra, poi solennemente a sinistra verso di noi. Alza le braccia, fischia e comincia a correre. I suoi passi e quelli della scorta sono l’unico suono che echeggia nello stadio. Mentre corre noi lo seguiamo in silenzio con lo sguardo. Arrivato al limite del campo si ferma e fischia tre volte. L’ultimo fischio è lungo e acuto. Non ne sento la fine perché ora tutti urlano. Anche io urlo. Cominciamo a muoverci in avanti, non è più possibile fermarsi, ora corriamo, tutti insieme, come un sol uomo.
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