“...tua. E’ stata colpa tua se poi non abbiamo avuto altri figli. Lui è rimasto disoccupato ed è cambiato. Non rideva più e non facevamo più all’amore. Lui prima era sempre allegro e pieno di vita, delle notti mi svegliava e mi addormentavo solo mezz’ora prima della sirena dei cantieri. Dopo quel dicembre il mio stipendio non bastava mai e poi hanno chiuso anche il mio reparto. Meno male che c’era il dottor Barzanti. Te lo ricordi il dottor Barzanti, vero? Era quello che curava i poveri, i pescatori, i muratori e si faceva pagare solo dai signori. A lui piacevano le navi e aveva una collezione di navi in bottiglia che gli costruiva mio marito e che lui poi regalava agli amici e ai nipotini. I miei figli hanno mangiato il pane delle navi in bottiglia per tanto tempo. Mio marito é cambiato perché non riuscivamo a vivere, qualcosa si è rotto nel suo orologio, qui dentro, non aveva più forza, non ci siamo più voluti bene. Tutto per colpa tua, bastardo...tu e i tuoi soldi, e adesso a che ti servono? Che ne fai adesso che hai bisogno che qualcuno ti faccia pisciare perché non ce la fai da solo?”.
La rabbia della donna spinge la sedia a rotelle sino al porto vecchio, verso l’Acquario. Le auto rallentano e frenano mentre attraversa la strada, poi la dimenticano nello spazio di un clacson. Una folla vomitata da autobus e auto li circonda e tra la gente che entra ed esce dall’Acquario si dirigono verso la Capitaneria di porto, invisibili a tutti tranne che a Irvhani. Si avvicinano a una panchina con dei tedeschi che prendono il sole. I ragazzi biondi a torso nudo le dicono qualcosa, ma la vecchietta sorride e non capisce. I ragazzi lasciano la panchina invitandola a gesti a sedersi. “Grazie, grazie, siete gentili, grazie, sono proprio stanca, grazie, ho camminato tanto e questo qua è pesante da portare, tanto pesante”. I tedeschi sorridono, rispondono con un ciao e si confondono con il resto dell’umanità. La vecchietta indica un punto oltre le teste della folla. “Vedi quella palazzina marrone lì davanti, sul molo? Quelli sono i vecchi magazzini del cotone. All’ultimo piano c’è un museo, un bel museo. Ci sono andata con i miei nipotini a Natale. Ci sono alcuni modellini che ha fatto mio marito. Sono bellissimi e io mi sono messa a piangere quando li ho visti. Capisci vecchio bastardo? Mi sono messa a piangere davanti ai miei bambini!”. Una presenza al loro fianco richiama gli occhi lucidi di Diletta. Un ragazzo con barba e capelli lunghi e un paio di jeans sporchi la guarda. “Dammi i soldi vecchia!”. La voce della vecchia esce dura dalle labbra strette: “I soldi te li puoi scordare, cretino! Se mi metto a gridare qui, non fai in tempo a scappare che arrivano i carabinieri “. Gli occhi della vecchia si sono accesi come tanti anni fa, in cantiere. “Ho detto dammi i soldi o ti ammazzo!”. Da sotto la maglietta di Irvhani è apparso un lungo cacciavite. “Cretino, ma credi che una vecchia come me ha paura di morire? Tanto io sono sola e quello che dovevo fare l’ho fatto. Vedi questo qui? “e indica il vecchio che respira a fatica sulla sedia a rotelle, “questo ha un sacco di soldi e dovevo parlargli da sola da tanti anni. Adesso l’ho fatto, quindi posso pure morire, tanto soldi da darti non ne ho. Mia figlia non mi dà neanche mille lire per fare la carità !”. Il giovane non sa cosa fare con quel cacciavite in mano e qualcuno nella folla si è voltato a guardarlo. In testa ha solo il buio e il freddo di una notte in mare. Si è ritrovato in acqua con suo fratello che non sapeva nuotare. Ha tentato di tirarlo a se, di dargli una mano, ma gli è scivolato via, aveva le mani bagnate e fredde, tanto fredde. L’ha chiamato, ha urlato il suo nome tante volte, anche dalla spiaggia poi piangendo è fuggito via e ora è lì. Ha un cacciavite in mano e niente dentro. Si copre il viso con la mano e le sue spalle cominciano a tremare nella luce calda di un pomeriggio d’estate a Genova, di fronte al mare. La vecchia allunga la mano verso la sua che stringe ancora il cacciavite. “Che hai adesso? Su vieni qua, siediti.” La vecchia lo tira dolcemente a se e batte sul legno della panchina per invitarlo a sedersi. Il giovane si siede, nonostante la barba non avrà neanche vent’anni. “Lo sai che tu mi ricordi un ragazzo di mia figlia Giulia, un bel ragazzo. Si chiamava Giorgione. Veramente il suo nome era Giorgio, ma gli amici lo chiamavano Giorgione per certi attributi, non so se mi spiego...” . Il ragazzo stringe ancora il cacciavite anche se lo ha dimenticato. Si tocca il petto dicendo “Il mio nome è Irvhani”. “E che significa?” “Irvhani! E’ un nome!” “Va bene, va bene non t’arrabbiare. Volevo sapere il significato in italiano. Ti spiace se ti chiamo Giorgione? Gli somigli tanto, va bene ? E’ più facile” “Ma io mi chiamo Irvhani!”
“Fermo! Polizia! Metti giù quel cacciavite!”
è tutto così triste
ReplyDeletequella vita descritta da Diletta, gli occhi lucidi, è triste questo nuovo capitolo, ha cambiato le carte in tavola, prima poteva sembrare che Diletta lo volesse portare via per altri motivi e adesso vien fuori che è solo una specie di "vendetta"... è triste ma proprio per questo è bello, perchè suscita un sentimento e non importa quale sia.
Io mi rendo conto ogni giorno, leggendo te ultimammente e leggendo da anni altri blogger che hanno a mio parere il tuo stesso dono di saper emozionare, divertire, commuovere o stupire con la fantasia che io questa cosa non la so fare, io non so inventare nulla, so solo scrivere di quel che vedo, di quel che sento, di quel che accade intorno eppure di fantasia ne ho, allora che cosa mi manca? E' una di quelle domande da prendere con filosofia e con un sorriso godendosi quel che di buono si legge in giro :-)
Ti auguro buona giornata e ti lascio un sorriso e un saluto
:-)mandi
sono le parole che poi non vengono :-(
ReplyDeletemanca lo stile
il modo
non so come dire, infatti
va beh...
:-)
buona giornata anche a te e non farci caso, ogni tanto farnetico anzi, senza ogni tanto, spesso :-)))
Seduzione velata, in quanto cosparsa di zucchero a velo.
ReplyDeleteBel ritmo il tuo racconto. Non è banale e non segue un clichè, come certi personaggi che si incrociano in questi luoghi ameni.
A bien tot!
katiaqu: e se tu avessi ragione?
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