Rat race

Running

Thursday, September 30, 2010

Capitolo uno e tre

Mi lascio il sapore del caffè sulla lingua ancora un attimo. Devo essere proprio vecchio se mi soffermo cosi tanto sulle piccolissime cose. E poi sospiro troppo. Si sono vecchio amico mio, anche se faccio ancora la mia porca figura al mare, ho solo un po’ di pancetta e un buon tono muscolare, quasi tutti i capelli, vado in bici, corro tre volte alla settimana, mi alzo raramente la notte per pisciare, faccio ancora l’amore con la stessa donna da anni tre o quattro volte al mese e se lei fosse disponibile anche di più. Lo so cosa mi diresti:”Non hai un cazzo da fare e non hai problemi, bella forza!”. Hai ragione, sono la vergogna del genere umano, un pensionato di lusso. Hai ragione amico mio eppure tu ti ricordi dei periodi senza soldi, anzi senza una lira, tredici traslochi in dieci anni? Ti ricordi di quell’impiegato che somigliava ad un hobbit? Non voleva aprirmi il conto corrente perché avevo solo una borsa di studio e la faccenda gli puzzava di truffa: “sa… poi dalle nostre indagini risulta che alcune persone con il suo stesso cognome nella sua città di origine siano protestate” mi aveva detto con il sorrisino di chi ha capito il trucco del prestigiatore di turno. Avrei dovuto alzarmi, strappargli quel foglio di mano con la serie dei miei presunti parenti caduti in disgrazia  e sbattergliela in faccia pronunciando qualche frase storica tipo “Pirla, non sai con chi parli gnomo, piuttosto che mettere i soldi nella tua merdosa banca li spendo a puttane!” ma mi usci solo un “Ah, va bene…grazie lo stesso”, mi alzai, lo salutai con una vigorosa stretta di mano a cui rispose una medusa morta di stenti e amareggiato come una zitella settantenne abbandonata sull’altare e me ne andai rapidamente. Ma Dio è grande, Dio c’è e l’hobbit mi chiamò al cellulare il giorno dopo: “Dottor Torre, mi scusi potrebbe passare da noi nel pomeriggio, ci scusi tanto ma abbiamo riconsiderato la sua posizione ed è stato tutto un equivoco…” Il pomeriggio dopo mi spiegò l’arcano: a cena aveva parlato per caso con sua cognata che  per caso insegna matematica in un liceo cittadino e mentre lo gnomo parlava per caso di lavoro deve aver per caso parlato del mio caso umano. Per caso la cognata era stata ad un mia lezione sul frattale di Mandelbrot e gli insiemi di Julia, una di quelle cose che tu definiresti come una relazione pornografica, e che invece dimostrano la trama che tiene in piedi l’universo. Per caso la cognata gli aveva detto che ero uno molto conosciuto in alcuni ambienti accademici. Quel giorno aprii il conto corrente ed imparai a fare la ruota con la coda. Pago il conto, un saluto e riprendo la bici, c’è più gente per strada, devo assolutamente tornare a casa prima che i bambini si sveglino li porterò al mare. Amo stare con loro, amo la loro totale fiducia in questo nonno onnipotente, amo il modo in cui mi guardano e in cui mi abbracciano.
L’auto elettrica blu marbaltico ha raggiunto la massima velocità permessa dal motore, 70 chilometri, troppo per un centro abitato. Sulla patente della ragazza che guida c’è scritto Maria Elena Suardi, nata a Genova il 22 Aprile 2003. L’auto imbocca senza far rumore  e contromano Via Crespi, ora curva decisamente a destra con un leggero stridore di gomme. Maria Elena Suardi stà male, sta per vomitare. Deve essere colpa di quella roba che ha bevuto, ma tanto casa è a trecento metri, controlla benissimo l’auto nonostante la notte in giro da un locale all’altro. Ha appena accompagnato la sua amica Lucia vicino casa. Ma era Lucia? No, che stupida era Chicca! Ride e sente il conato di vomito salire  e  mentre si porta la mano sinistra alla bocca vede qualcuno in bici tagliarle la strada e sente l’urto sulla carrozzeria in fibra di carbonio, leggerissima come l’uomo che vola oltre il cofano e sparisce da qualche parte li dietro a destra poi il rumore la colpisce insieme al muretto che separa il lungomare dalla spiaggia.
Uh, this is Houston. Uh, say again, please? Houston, we have a problem.

Wednesday, September 29, 2010

Capitolo uno e due

Il ragazzo se ne sta sdraiato per terra nel giardino di fronte al laghetto.  Tre grosse pietre chiare affiorano dal pelo dell’acqua.  Un venticello tiepido gioca tra gli alberi e i cespugli che nascondono la riva e spinge onde delicate ad abbracciare i massi. Il ragazzo guarda una nuvola  quasi immobile, chiude gli occhi e riaccende il piccolo walkman Sony ricevuto da suo padre per intercessione della madre. Quelle cuffie chiare nascondono il rumore del mondo e minacciano sordità sicura. Eppure adesso ha un walkman che in Italia nemmeno conoscono. Ora si ascolta in santa pace qualcosa che suo padre non capirebbe mai. Hells bells hells bells, you got me ringing hells bells, my temperature's high hells bells. E aspetta. Il suono è forte, troppo. La voce stridula del cantante la si può percepire da qualche metro anche se ovattata dalla spugna della cuffia. Da un cespuglio di azalee alle sue spalle spunta silenziosamente una ragazza. Prima la testa piegata in avanti,  poi le spalle curve e le braccia che trascinano qualcosa. Una sedia con lo schienale alto a sinistra e a destra una strana custodia in pelle, grande e apparentemente pesante. La ragazza poggia lentamente la sedia a qualche metro di distanza dal ragazzo e scosta i lunghi capelli chiari dalla fronte . Il viso è sudato, una goccia di sudore le scivola in un occhio che lei si sfrega freneticamente per qualche secondo. Il ragazzo, forse per la vibrazione sul terreno o per un ombra improvvisa o per il nuovo odore di essere umano nell’aria  apre gli occhi e si tira su a sedere. “Lia! Che fine hai fatto?” le chiede a voce troppo alta e senza aspettarsi una risposta. La ragazza lo ignora, poggia per terra  la custodia che ha trascinato sino alla radura e la apre. Con la mano sinistra  estrae un violoncello. Si siede a gambe larghe e solo allora il ragazzo si accorge che è scalza. Lo strumento si accomoda tra le cosce magre di Lia come un cane affettuoso. Nella mano destra è apparso un archetto che si poggia sulla prima corda mentre  le dita della mano sinistra corrono a sistemarsi sulla tastiera del manico. Il ragazzo osserva Lia abbracciata al violoncello , la testa in avanti con i capelli lunghi pericolosamente vicini alle corde. Sa già che i suoi occhi sono chiusi , sa cosa significa e spegne il walkman.  Dopo un istante il violoncello canta. La sua voce calda comincia profonda, poi si allarga nervosa e poi si frantuma in colpi d’archetto veloci e nervosi, si espande, sale e precipita nell’acqua dello stagno e riemerge salendo tra i rami curvi . Le dita di Lia piegano con forza e velocità le corde e rimescolano una materia sconosciuta nel petto del ragazzo. Lui sa che quello è Bach, lo sa perché glielo ha detto Lia, lo sa da un anno cos’è il concerto in C minor per oboe e violino riarrangiato per violoncello dalla sua amica Lia che con la musica è una grande, ma che se le parli non ti risponde e non si lava o pettina se non c’è sua madre. Lia, Lia, Lia dalle gambe lunghe. Lia dalla pelle chiarissima, Lia sempre raffreddata d’inverno con il naso che cola e nessuna voglia di asciugarlo. Lia tredicenne di un altro pianeta, aliena tra gli alieni, gaijin per tutti, genitori compresi. Il violoncello tace. “Brava Lia, come sempre!” Un piccolo applauso del pubblico non pagante e alle spalle della ragazza appare una cameriera giapponese, minuta dai capelli scurissimi e dai modi gentili . “Signorina Lia, prego…”. Un breve inchino e si sposta di lato ad indicare la via del ritorno a casa. Lia si solleva , ripone rapida il violoncello, riafferra sedia e custodia e senza una parola si dirige verso la cameriera che è rimasta ferma. La cameriera sa che non deve toccare la figlia dell’ambasciatore, non deve portarle via gli oggetti dalle mani, non deve guardarla insistemente: quando le è capiato un anno prima ha rimediato due pugni in viso e ha quasi rischiato il licenziamento. Porci gaijin, porci puzzolenti gaijin, porci puzzolenti maleducati gaijin. Lo sai che tra qualche giorno arriva un altro ragazzo italiano?” . Il ragazzo ha lanciato la prima esca che ha trovato per fermare Lia che abbocca e si cristallizza attraversando a metà un cespuglio sotto lo sguardo scuro della cameriera.  
La voce di  una ragazzina di tredici anni esce dalla bocca della violoncellista.
“E’ simpatico?”.
“Non lo so!”
“E’ scuro di capelli ?”
“Che ne so!”
“Sa suonare?”
“Non lo so!”
“Sa aggiustare le radio?”
“Cheneso!!!”
“E’ come te?”
“Cioè? In che senso?”
I cespugli di azalee si aprono  e si richiudono alle spalle di Lia e della cameriera. Resta il silenzio delle rocce nell’acqua, due solchi creati dalla sedia trascinata e dalla custodia del violoncello. Il ragazzo riaccende il walkman. La nuvola si è appena spostata verso nord. Le campane dell’inferno suonano: AC/DC per non sentire qualcosa che non ha ancora un nome.


Friday, September 24, 2010

Capitolo uno e uno

Tutti quei “viaggetti per capire meglio il paese” che mia madre infliggeva a mio padre…
Una giorno mi dicesti che ti sarebbe piaciuto sposare una donna come mia madre. Mi sorprendesti, eravamo a casa tua ad asciugare i piatti di un pranzo domenicale. Le nostre famiglie si frequentavano e a me piaceva molto casa tua, piena di fotografie di nonni e zii e cugini, molte in bianco e nero. Mi piacevano anche i tuoi, tuo padre, un carabiniere che parlava con gli occhi, e tua madre che rideva senza ritegno alle barzellette sui carabinieri che raccontava mio padre.
Quel giorno mia madre aveva chiesto ai  tuoi il permesso di portarti con noi sull’isola di Oshima per un paio di giorni.  Un bel giro a cui mio padre avrebbe rinunciato volentieri, ma mamma aveva dentro l’eco della voce delle onde di Mishima , un libro che l’aveva commossa per il candore di una vita semplice e regolata da un tempo diverso dal nostro. L’avevo letto anche io su suo suggerimento, uno di quei suggerimenti a cui non puoi risponde con un “no, grazie, preferisco nuotare o giocare a pallone” se ci tieni a vivere in pace.  “Tua madre ha delle belle mani, mi piace. Ha anche una bella voce…una donna come lei mi andrebbe bene”. Quando pronunciasti quelle parole io non reagii subito perché non le capii. Come si poteva trovare interessante mia madre? Quella donna era solo mia madre! Quando, a distanza di anni ho rivisto le foto di quei tempi ho capito cosa volessi dire. Mia madre era magra, con grandi occhi scuri e capelli ricci tenuti fermi da una fascia colorata. Le donne della mia vita non hanno mai pronunciato il mio nome con la dolcezza della sua voce. Era un po più bassa di mio padre e spesso appoggiava i suoi riccioli sulla spalla di papà che beato ne assorbiva il profumo. Delicato affetto o pianificata marcatura del territorio?  Amore dato o amore richiesto? Continuai ad asciugare i pesanti piatti decorati made in italy per un paio di minuti, poi  mi svegliai. “Cosa vuoi dire che ti andrebbe bene?” Ti voltasti e candidamente mi rispondesti ”per sposarla”. Mia madre allora non era una donna, era solo mia madre e noi avevamo dodici anni.

Thursday, September 23, 2010

Capitolo Uno



Pedalo cosi mi sveglio. Pedalo sul lungomare ancora poco abitato. Il piccolo bar del ragazzo albanese è aperto da un po’. Ci lavorano marito e moglie. Sono giovani, venticinque forse ventisei anni, io ho festeggiato i miei venticinque anni a Seattle. Ma quella era un’altra era geologica , altra gente, non un granché devo dire. Stanotte ho scritto un po’, ora ho bisogno di un caffè, il secondo. Il primo l’ho preparato in silenzio con la moka della tristezza. La chiamiamo cosi in famiglia perché è una moka da due tazze, ma di solito la quantità di caffè preparato basta per una e mezza e te la prepari quando sei da solo. Triste, no? Amico mio , non riesco a togliermi dalla testa i ricordi. Ci vorrebbe un bravo neurochirurgo. “Dove le fa male signor Torre?” “Mah, direi accanto all’amigdala destra , si un po’ più in basso…ecco lì!”. E zac! Rien ne va plus, les jeux sont faits!!! Tutto passato, la bua non c’è più. Magari ! Mi siedo al tavolino freddo e umido, sorrido al moi amico barista che mi fa cenno di aver capito l’ordinazione telepatica che gli ho inviato. Respiro profondamente questa aria inzuppata. Sono un uomo felice. Quasi. Sai amico mio tutta questa pena insensata deriva da Lei. Si lo so non devo pensarci, lo so ma hai mai sentito parlare di subcosciente? Ecco, stanotte ho fatto un sogno. Un bel sogno che mi ha portato un bel regalo: un grumo di tristezza qui in petto  incastrato nel diaframma . Era una pietra aguzza che non mi faceva respirare. Aprire gli occhi è stata una liberazione.  Io e te eravamo  in una grande casa inglese, con un grande scalone in legno scuro, pannelli di legno a ricoprire le pareti. Grandi quadri che non vedevo, ma intuivo. Ricordo grandi cornici dorate, quadri del settecento forse. Tanta gente in smoking, anch’io credo, anche se non mi ricordo l’ultima volta che ne ho indossato uno. Non ricordo tutto, ma all’improvviso lei era là, mi parlava. C’erano anche i miei genitori, forse mi accompagnavano, forse quella casa enorme era la mia, ma non ne sono sicuro. Erano cosi giovani. Lei era appena arrivata, fasciata in un abito rosso, poi bianco , le lunghe braccia magre. Ci siamo salutati, non sentivo la sua voce coperta dal brusio  e tutto  il resto è scomparso. C’eravamo solo noi due. Credo che  mi abbia chiesto della mia vita mentre io non  ho chiesto niente della sua. All’improvviso ci siamo ritrovati in una stanzetta buia. I suoi occhi mi cercavano, tutto il suo corpo mi cercava. L’ho stretta a me con foga, l’ho baciata e trascinata per terra. Ho sentito la sua saliva, il suo sapore in bocca… credimi amico mio, l’ho sentito, non l’ho sognato. Non chiedermi come, ma l’ho sentito.  Nel sogno il sudore mi scendeva lungo la schiena mentre ero abbandonato sotto il suo corpo che si abbandonava sul mio. Mi sono svegliato come se uscissi da una apnea. C’è voluto un  attimo prima di rendermi conto che era un sogno. Angela, la mia Angela respirava piano accanto a me. E’ ancora molto bella nonostante gli anni e suo marito, io. E’ stata una liberazione svegliarsi, poi un dolore. Che brutti scherzi fanno i sogni! L’ombra del barista che mi porta il mio caffè mi riporta su questo lungomare e ai nostri ricordi. Non devo pensare a lei. Ti ricordi quando andammo a vedere gli sterminati campi di riso della penisola di Bosu? E il monte Mihara sull’isola di Oshima? E il pranzo con i pescatori?

Wednesday, September 22, 2010

日本



Mi mancate anche voi due. Tu mio, caro amico e lei. Ma di lei non scriverò, giuro.  Pensiero focalizzato chiaro, non devo farmi distrarre da lei. Il suo pensiero è come una camicia stropicciata buttata su di un letto, il nostro. Devo solo riabbottonare quella camicia azzurra, piegarla con cura e metterla in un armadio, chiudere le ante a chiave e pensare ad altro amico mio. Stop. Giappone, il mio primo giardino giapponese e la scoperta che l’ordine è intrinseco alla natura, anche alla natura dell’uomo. Io mio padre e mia madre fummo ricevuti dall’ambasciatore italiano in una sala di rappresentanza. Mi sarei aspettato che ci venisse incontro per  il lungo corridoio che dall’ingresso dell’ambasciata portava alla questo salone luminosissimo in cui le finestre sostituivano i muri. Mentre masticavo questa piccola delusione che assorbivo per osmosi dal passo rigido di mio padre, lo vidi. Sembrava voler entrare e dilagare tra i pochi mobili del salone: il giardino di Matsudaira. Le diverse tonalità di vede mi entrarono negli occhi scandite da un ritmo antico, da un sottofondo del mondo che non avevo mai ascoltato. Ancora oggi non so se fossi io ad assorbire volontariamente quella luce o ad esserne inondato senza difese. Decisi che avrei vissuto lì per il resto della mia vita che allora mi sembrava infinita. In quel momento appuntai una bandierina rossa sulla mappa della mia storia. Poi sentii i passi sul marmo. Una macchia grigio-chiaro entrò nel  salone, girò intorno un piccolo tavolo che reggeva un grammofono lucidissimo e si frappose tra noi e la luce verde. “Carissimo Dottor Torre che piacere averla qui tra noi finalmente …signora…ciao giovanotto… tu devi essere Antonello, vero?”.
La macchia grigia era l’ambasciatore, un uomo di media statura, media corporatura, media età e occhiali dorati dalle lenti leggere. Un uomo grigio che odiai senza motivo da quel momento e verso cui l’odio venne giustificato in seguito. Mio padre sorrideva, mia madre sorrideva, mentre io devo essergli apparso come il solito adolescente bruno con pochi brufoli, ma molti problemi. Sicuramente mio padre deve avermi lanciato una occhiata torva, non me ne accorsi. Mentre i convenevoli scorrevano freddi mi piegai leggermente per guardare il giardino. Era ancora lì.

Monday, September 20, 2010

Capitolo zero

Parola evocativa:  elefante giallo.  E tu te lo immagini li davanti, enorme. Un pachiderma giallo canarino, mostruoso,  ma te lo immagini cosi bene che quasi ne senti la puzza per quanto possa sembrarti strano. E’ l’ultima immagine dell’India. Ci avevo vissuto tre anni con i miei genitori. Papà era il vice del nostro ambasciatore in India. Ho un baule di ricordi di quegli anni, ma quell’elefante colorato con della terra ocra che solleva la proboscide a salutare, cosi come fa il suo mahut sorridente e senza camicia è l’ultimo fotogramma, sintesi calda di un brandello di vita. Poi il portello dell’aereo si chiuse e volai via.
Parola evocativa due: Giappone. Io e te a Tokio, estate 1981.  Dall’india atterrai a nel formicaio senza respiro di Tokio. Il respiro mozzato dall’inquinamento, il rumore ovunque. Potrei spendere molte parole su quel giorno, e cerco di ricordare quanti più particolari possibile , ma mi interrompono. E’ appena entrato mio nipote, il piccolo.  Ha sete e gli do un bicchiere d’acqua. Beve reggendo il bicchiere con tutte e due le mani. Mi guarda dal fondo del bicchiere e si deve essere reso conto che scrivo qualcosa seduto al tavolo della cucina di notte e per di più in mutande.  Ha una faccia cosi furba...dovresti vederlo, tutto suo padre, forse peggio se è mai possibile. Sospira dalla soddisfazione per l’acqua bevuta e mi  chiede cosa faccio sbirciando sul tavolo. Sono stato tentato di dirgli la verità. Gli dico che  sono conti da pagare. Annuisce con il capo, credo poco convinto però,  mi bacia e torna a letto.  Lo guardo andare via a piedi nudi sulle sue gambe magre e mi manca non essere più padre, ma solo nonno, mi manca. Un giorno porterò i miei nipoti a Tokio.

Friday, September 17, 2010

Almost there...



Sono distratto sai, non mi accorgerò di morire. A volte però sento un pizzico sulla carne del cuore quando penso che forse non vedrò più le foglie giallo-rosse-arancioni che mi stupiscono sempre. O forse le rivedrò, dipende dalle migliaia di caratteri che scriverò, dalle decine di pagine che si accumuleranno come polvere sul tavolo della mia camera essenziale del quarto piano,  dai ricordi che riuscirò a riesumare con una parvenza ancora di realtà. Dipende anche al coraggio che sentirò arrivarmi da te che mi incoraggerai dagli spalti lontani per ogni falcata verso la metà, per ogni piroetta che farò schivando i miei avversari di sempre, il sonno e la pigrizia e gli ultimi scampoli di ricordi delle mie paure di quei tempi .

Thursday, September 16, 2010

Talking


Lui non c’è più su questo piano dell’esistenza che io conosco, i gradi di separazione tra noi sono sicuramente più di sette, forse più di settanta, ma non importa perché io so che li fuori, in qualche topaia partorita da qualche megalopoli o tra colline verdi o in riva a qualche oceano lui si sveglia e vecchio com’è pensa in retromarcia come me e si chiede cosa stia facendo io. Io penso a noi, a come eravamo, a ciò che siamo ora e a cosa ci è capitato. E ora lo scrivo caro amico, prima che manchi elettricità ai miei neuroni. Ho deciso che non morirò sino a quando non avrò terminato queste memorie . Forse ci vorranno ore o giorni o settimane. Ogni secondo di vita in più va bene, ogni parola in più riempirà queste notte stupide. Ci fosse almeno una donna, magari sarebbe piacevole. Magari vivrei altri cento anni, evitando qualche errore macroscopico, tipo inimicarsi il mondo inseguendo la verità, che è un miraggio, come le pozze d’acqua immaginaria sull’asfalto  d’agosto.  O peggio cercare la signora libertà, nota meretrice dal prezzo improponibile per gentucola come noi. Se ricordi avevamo troppa paura per poter comprare la libertà, amico mio , eravamo terrorizzati ma cosi completamente da non accorgercene. Ora io ho solo paura di bagnarmi i pantaloni in pubblico.  Quindi forse sono un uomo libero, perché quella è l’unica paura che mi è rimasta in agenda.  Mi chiederai della morte, immagino.  Io sono immortale caro mio, ho trasmesso il mio DNA, poco , devo ammettere per le mie ambizioni , ma ora cammina tra strade affollate con occhi di diverso colore e sorrisi miei. Io sono immortale , solo questo corpo ormai inutile muore ogni istante, ma è stato cosi dalla nascita, quindi nessuna novità.

Wednesday, September 15, 2010

Overture


Battere su tasti neri ingentiliti da caratteri bianchi non so se si possa definire “scrivere”.
Non ci son linee e curve che denuncino i tuoi pensieri segreti e i tuoi vizi evidenti, solo lettere tutte uguali equidistanti ed ortostatiche. Non ci sono inclinazioni che indichino quanto ami sdraiarti su un divano nei pomeriggi di pioggia di Novembre. Ci sono solo lettere e parole a cui è difficile affezionarsi , cosa ci puoi fare?
Certo la tua penna non ti dice che hai appena scritto poco più di trecentocinquanta caratteri. E’ un bel vantaggio, ma una volta (oh, nostalgia) si contavano le pagine a decine, e io devo essere vecchio per ricordarmene.  Si , sono vecchio e come tutti i vecchi penso in retromarcia. Sfortunatamente i pneumatici della mia memoria hanno il battistrada liscio e allora per non finire fuori strada scrivo, anche al computer, non importa se nessuno vedrà mai le cancellature dei miei errori, le revisioni in corso d’opera, nessuno conoscerà mai le scie disegnate dalle mie virate ne vedrà le macerie di vecchie idee nascoste da scarabocchi. Comunque scrivo, non siete d’accordo? Scrivo per un vecchio amico che non c’è più. No, non è passato come si dice “a miglior vita”, ha soltanto fatto perdere le sue tracce in questo mondo che per quanto si faccia resta sempre immenso perché abitato all’inverosimile da persone anonime tra cui è facile mimetizzarsi.