Rat race

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Friday, April 29, 2011

"Il Lavoro è Onore"

Questa frase mi è tornata in mente stamattina, mentre sceglievo un paio di calzini puliti dal solito cassetto. Un corto circuito tra il colore dei calzini (blu), il gesto (ricordo mio padre rovistare in un cassetto simile, avrò avuto l'età di mia figlia) e la voce di mia figlia che mi parlava di un torneo di pallavolo organizzato per domenica 1° Maggio. "Il Lavoro è Onore". La frase veniva pronunciata con le maiuscole. Sono secoli che non la sento. Nessuno la pronuncia più. Mio nonno smontava e riparava i giganteschi motori diesel delle navi, nuotava nell'olio; mio padre creava e riparava meccanismi di precisione con mani da alfabeto Braille; io sono un professore universitario. Ho preso l'ascensore, loro hanno pagato la corsa, io anche, ma ne è valsa la pena. Mentre scrivo mi è tornata in mente la prima occasione durante la quale mio padre mi travasò queste parole nell'orecchio. Ricordo la strada in cui giocavo e uno spazzino con la sua scopa di saggina e un carretto con due bidoni metallici sopra. Lo spazzino spingeva il carretto, si fermava, estraeva la scopa da una guaina di ferro del carretto, la roteava come una katana e spazzava la strada leggermente curvo, fasciato in una specie di spolverino grigio corredato di regolamentare cappello grigio anch'esso, munito di visiera scura. Un ufficiale della pulizia. Ridevo della battuta infantile. Il papà di un mio compagno di scuola, di cui non ricordo il nome, era uno spazzino. Il nostro maestro ci correggeva: operatore ecologico, non spazzino! Quella mattina condivisi la mia scienza infusa con mio padre. La sigaretta appena accesa gli pendeva dalle labbra. "Non importa il nome o se è uno spazzino, l'importante è che lavori, il Lavoro è Onore." Il lavoro. Papà non mi parlava mai di denaro, solo di opportunità. Un uomo è ciò che vive, ciò che pensa, ciò che fa, come si comporta. Un uomo è il suo impegno a vivere e a costruire con tutte le sue forze. Un uomo è un titano. Di fronte alla saggezza di quell'operaio, di fronte alla sua moralità stamattina mi sono sentito piccolo. Ho preso l'ascensore come molti, ma sono andato in garage. Siamo andati nel basement, la cantinetta della villetta del fine settimana della vacanza del programma del profitto della bella vita della figa della ghè pensi mi del niente. Hanno ammazzato l'homo faber e il telegramma mi è arrivato stamattina. Su coraggio, buon primo Maggio.

Thursday, April 21, 2011

Sette di tutto (IV)

Mamma! Mamma è buio!  Ho paura, è buio.  Mamma dimmi che mi vuoi bene e che non mi lascerai mai. Mamma stringimi e balliamo insieme, insegnami a ballare.  Mamma quel mostro verde mi ha morso mamma, mi ha fatto male, ma io non ho pianto, io sono un uomo.  Mamma, stai con me, ho paura del buio.  Ho freddo mamma.  Dov'è Tito mamma? Mamma, io lo so che tu e Tito mi volete bene.  E' vero? E' vero? Mamma dimmi che mi vuoi bene. Almento tu, mamma, tu e Tito. 

La suora ha l’alito cattivo. Lo si sente da due metri. Per il resto, da dietro le ali bianche della sua cuffia il suo mestiere lo sa fare.
Taglia e cuce come un chirurgo e non è arrogante come loro. Fascia braccia e gambe e teste con mano leggera e non dorme mai  o cosi sembra. Nonostante l’alito ha sempre un sorriso stampato in faccia. Lo aveva anche qualche mese fa quando dava una mano a fermare l’emoraggia dallo stomaco bucato di un soldato tedesco  di diciotto anni che urlava di  non voler morire e chiamava sua madre.  L’ultimo morto tedesco di quei cinque giorni. Lei gli parlava con dolcezza in tedesco e gli sorrideva accarezzando i capelli biondi, gli diceva che il dottore era bravo e che non sarebbe morto. Davanti al suo cadavere cinque minuti dopo  aveva detto che questa era la volontà del Signore, amen e gli aveva chiuso gli occhi verdi sbarrati su qualche inferno o su qualche valalla nibelungo. Strana donna Suor Ginetta da Trento, strana suora dall’alito cattivo.  Qualche anno prima, qualche giorno prima di Natale, il primario di chirurgia, il dottor Spreafico, camicia nera dai tempi della Marcia, le aveva chiesto con un sorriso virile: “Ma suor Ginetta , ma perché ha lasciato le nostre belle Alpi?” lui che non era mai stato più a  nord di Roma e lei gli aveva risposto sempre sorridendo: “Perchè faceva troppo freddo”.
”Ah, beh...certo, certo...”. Strana donna Suor Ginetta da Trento. Si affaccia da dietro la porta bianca ed il medico più che vederla ne avverte la presenza da dietro gli occhi chiusi, forse anche l’afrore. L’odore di una suora vestita di bianco dovrebbe essere di violetta o di lavanda. Suor Ginetta sa di etere e aglio della cucina e di tutta la sofferenza del mondo.
 Con gli occhi ancora chiusi il giovane solleva la testa.
”Va bene sorella arrivo”
Il medico sbadiglia e si strofina gli occhi arrossati.  Venti minuti di sonno senza sogni in venti ore, venti minuti seduto ad un tavolaccio.
 “Avanti un altro tanto...”
Tanto sono rimasti solo in due e mezzo in ospedale: lui, Mauro Pacelli e il regalo.
Il medico trascina i piedi sino alla porta e si ferma. Sull’uscio un soldato americano negro enorme  ha un bambino svenuto tra le braccia. Le ali della cuffia di Suor Ginetta spuntano  dalle sue spalle “Ha detto che voleva il dottore se no non lo lasciava il bambino”
“Doc, bambino fatto male…caduto trak”
“Si si va bene... vieni mettilo qui” Il dottore lo prende per un braccio e gli indica un tavolo coperto da un lenzuolo. Il soldato si fa guidare docilmente  e posa il bambino sul tavolo. “folen daun ”
Lo scimmione ha una voce potente  e profonda “blood sanguie sanguie”
“Va bene...adesso  go, go su. Sorella portatelo  via.” Suor Ginetta stende le braccia verso il petto del soldato che resta immobile. La sua camicia ha un enorme macchia marrone a sinistra.  Il soldato americano guarda  giù verso il sorriso della suora e si allontana.
Il bambino è magro,  troppo magro  per i suoi sei, sette anni. Le costole si possono contare . Qui, questa é rotta, la sesta a destra. i polmoni sono a posto però. Un pò di graffi alle gambe e alle braccia. Brutto taglio al cuoio capelluto. Ci mettiamo  due, no tre  punti. Ha un inizio di scorbuto.
“Ale atque vale doc. Posso darti una mano?”
“ Si Julian, aiutami a fasciarlo...Suor  Ginetta le bende... ne abbiamo? “
“Solo vecchie lenzuola”.
“Sono pulite almeno?”
“Si dottore, qualcuna di pulita c’è, la cerco”
Julian è bravo a fasciare, delicato e deciso al tempo stesso.
Julian T. Owen, detto il regalo, the gift . E’ il regalo della Royal Navy della perfida Albione per i bisogni sanitari dei nuovi alleati, è il regalo di Dio alle donne del mondo secondo lui. Julian T. Owen è un veterinario di Swansea, Galles, Regno Unito, vecchi nemici, nuovi amici e poi non tanto. Lui viene da un paese strano che è fatto di pecore e colline. Colline e pecore e pub spersi nel nulla, che poi sono come le nostre osterie da quello che si capisce. Colline e pecore e love spoon, promesse d’amore di legno che Julian regala a donne dai nomi impronunciabili che vivono in posti dai nomi impronunciabili e che lui recita come scioglilingua quando racconta di quella volta che un marito poco spiritoso gli aveva sparato addosso.
Julian è un veterinario figlio di un pittore un po' strabico , ma bravo.
Tanto bravo da aver dipinto un quadro del principe del Galles, l’erede al trono. Julian è un bravo ragazzo ed un bravo veterinario che ama più gli animali che gli uomini.
 “Guarda che per noi le pecore sono come persone e se si ammalano le curiamo bene perché da noi o hai molte pecore o ti tocca andare in miniera a scavare carbone in ginocchio e a non vedere la luce del sole per mesi. Scendi nel pozzo prima dell’alba ed esci che è notte. Poi tra animali e uomini le differenze sono poche, per qualcuno nessuna. Forse gli animali sgravidano  di spalle e le donne di faccia, ma sono particolari”.
Decisamente Julian ama più gli animali degli uomini, ma si lucida ogni giorno gli stivali  e cerca di essere sempre bello per le donne.

Tuesday, April 19, 2011

Sette di tutto (III)


Il grosso camion verde con la stella bianca sulle portiere arriva dal molo grande. Quella striscia di pietre antiche ha dato momentaneo  rifugio a due navi grigie, panciute e placide come signore di mezz'età.  Dal loro ventre scuro uomini sudati scaricano in silenzio casse di legno piccole, grandi e grandissime.  Ogni tanto qualche capo, meno sudato e più incazzato, urla in una lingua di gomma ordini sempre uguali tra il cigolio ritmico dei paranchi e delle gru.  A dire il vero nessuno sembra occuparsene più di tanto.  Troppo caldo per pensare , si suda soltanto e non é neanche estate. Si aspetta solo la fine del turno di lavoro per andare a bere una birra chiara e ghiacciata  che riporti l'anima dentro il corpo.  Il camion viaggia nel sole di mezzogiorno, seguito da una nuvola di polvere.  Senza fretta passa lungo una fila di palme  da datteri, messe a fare da sentinelle sul confine tra la strada bianca e il lungomare dove con la balaustra di ferro  tiene a bada le agavi.  Dal lato opposto della strada alcuni palazzi scostumati mostrano le proprie intimità violate: stanze con letti intatti, sedie e cassettoni pieni di abiti, quadri di pittori morti di fame e orologi a pendolo guasti che mai avrebbero pensato di splendere nel sole. Nel cassone del camion quella luce crudele scopre un arcobaleno di frutta fresca ed odorosa. In questi tempi strani a volte colori ed odori si percepiscono  come un' unica sensazione. E’ un fenomeno curioso rinforzato dall'esperienza di ogni giorno durata anni.  Il nero delle  uniformi fasciste portava con sé sempre la puzza dell'olio di ricino e il fetore della paura e della  merda  conseguenti; il rosso del sangue che scuriva per strada sapeva di polvere da sparo, e quell'odore/colore che dalle narici arrivava direttamente al cervello e lo imbeveva ne è ancora satura tutta la città, ogni via, ogni vicolo.
Il camion verde arriva di fronte al comando militare preceduto di molto dal rumore del proprio motore Ford. Il rumore verde aveva prima echeggiato nel dedalo di vie scure  che separano il lungomare dalla zona che gli alleati avevano occupato con le loro uniformi stirate di fresco.
Due enormi uomini in divisa saltano giù dal camion e spariscono nella porta del posto di guardia dopo averla riempita quasi completamente. 
La tentazione è troppo forte, più forte della paura che li ha fatti nascondere dietro un cumulo di macerie.  Mille colori, mille odori, mille di sapori; una unica certezza: ora o mai più, quel carico di frutta non resterà incustodito a lungo.
"Ora o mai più" Tanino quasi sospira per la paura e guarda Lino negli occhi. "Ora!" gli risponde Lino con la freddezza che può avere solo chi ha già superato il muro della disperazione e si è accorto che dall'altro lato non c'è niente.  L'assalto è cominciato. Due piccole ombre affamate e scalze si avvicinano rapide al retro del camion.
Rapide occhiate verso la porta del posto di  guardia. Si sentono grandi risate, tutto bene. Tanino non respira più per la paura, ma una mela  la deve portare a Maria.  Si accuccia prima del balzo finale e cerca la forza negli occhi neri di Maria e nella nuca rasata di Lino. "Voglio mangiare una banana, una banana gialla" è la voce di Lino che si dà coraggio e con un balzo si appende con tutte e due le mani alla balaustra del camion. Spine di ricci di mare, nere e lunghe gli entrano nelle mani ma non siamo al mare. Poi arriva il rumore, come lo sfrigolio delle lame dei coltelli sulla ruota dell'arrotino, e poi le scintille. Infine tutto il corpo che trema, scosso dalla corrente  elettrica. E’ il morso del mostro, il camion è  vivo.  Il sole in cielo comincia a roteare e l'azzurro scompare. Tanino è impietrito ancora accucciato sotto il cassone guarda il suo amico sbattere contro il metallo come uno straccio da asciugare. Si alza lentamente. Bisogna staccare Lino da quella croce, ma trova solo la forza di urlare il suo nome con tutta l'aria che ha nei polmoni come per svegliarlo da quell'incubo "Linoo, Linooo, andiamo Linooo". 
Qualcuno esce dalla caserma e il bambino corre via prima di rendersene conto.
Uno degli uomini del camion ha sentito quelle urla e si è precipitato fuori con la pistola in pugno. Alla vista del bambino attaccato al metallo  ripone la pistola nella fondina e sorride sotto i baffi rossicci e ben curati "Giò, wi got anoter fachin macaroni...cam iar!" Il camion lascia improvvisamente la sua preda ed il bambino cade per terra. Arriva un altro soldato con la divisa sporca di grasso.
L'uomo che sorride indossa baffi rossi, è il sergente J.C. Manter, figlio delle praterie dell'Arkansas e di diversi padr. "Sii, i's still tremlin... ". Prova a toccarlo con la punta dell'anfibio. L’altro soldato lo spinge via con un colpo di spalla e si china sul bambino che perde sangue dalla nuca rasata a zero per i pidocchi e dalla piccola bocca piagata.  Il soldato solleva quell'umanità leggera e bagnata di sangue e piscio e si ritrova davanti il volto ben rasato, i baffi rossi e gli occhi verdi del sergente Manter con la mano sulla fondina della pistola.  Il soldato lo fissa con i suoi occhi gialli. Gli sorride mostrando i denti bianchissimi.  Il sergente si sposta di lato e il soldato sorridente  entra nel buio del posto di guardia . Dopo qualche passo la sua voce leggera canticchia l’overture dell’ Italiana in Algeri di Rossini "jo man... fachin son...ov a fachin mader...".

Thursday, April 14, 2011

Un minuto di silenzio.

Non conoscevo Arrigoni, non seguivo il suo blog, non appartengo alla sua parte politica, non sono un pacifista, ma un uomo che mette la sua vita in gioco (e la perde) per un mondo migliore  merita tutto il rispetto e l'attenzione di chi perde tempo a scrivere fesserie in internet mentre il mondo continua a vivere.
Chiedo minuto di silenzio per un uomo.
B

Wednesday, April 13, 2011

Sette di tutto (II)

“La fame è fame e non c'è niente da fare. Non ti fa giocare, non ti fa pensare e non ti fa dormire.  Non ce la fai a correre  e quando  ti fermi hai lo stomaco freddo, non ce la fai a tirare le pietre o a fare a botte.  La fame è fame.  Se Dio ci vuole bene, come dice la mamma, perché ci fa avere fame? Anche Tito ha fame.  Me ne accorgo perché non gioca  più con me e sparisce per un paio di giorni. Mamma dice che va a caccia.  Va a caccia di colombi, credo. Forse pesca. Mamma  dice che i gatti vanno a caccia di topi, quelli grossi e schifosi come quello  che abbiamo  ucciso la settimana scorsa con Tanino ed Edoardo e c’era  pure Tonio. Era grosso come un gatto il topo, ma lo abbiamo  inseguito tutti insieme e poi lo abbiamo colpito con le fionde e le mazze.
Ci ha messo un sacco di tempo a morire  ed ancora mi ricordo  i suoi strilli.  Somigliavano a quelli degli uccelli. Non penso che Tito mangia quelle schifezze anche se la fame é fame. Chissà se mio padre ha portato da mangiare oggi. Chissà se stasera mio padre torna. Il padre di Tanino torna sempre. Suo padre dice che prima era diverso.  Prima si mangiava ogni giorno, non tantissimo, ma si mangiava.  Ogni tanto, lui e suo padre giocano a tavola e fanno finta che, invece delle razioni, c’è il pollo da  mangiare tutti insieme con le mani o una fetta di carne rossa rossa da fare nella padella grande sul fuoco o i dolci, le cassatine con le ciliege  sopra.  Io ho mangiato una volta le ciliege, le ho rubate da un orto dove c'era anche un cane rabbioso che per poco non mi mordeva, ma non ho mai mangiato le cassatine. Io penso che a Tito e a me ci piacciono  le cassatine.”

La fila per il pane è lunga. Ci vorranno ore avere un po' di pane.  Ore di fila. Ore di uomini e donne appoggiati ad un muro e che non si parlano, attenti soprattutto  a non essere superati e a superare. Quasi nessuno parla e parlare poi di che? La guerra ha cambiato i discorsi e nessuno vuole parlare di guerra. La guerra ha cambiato le parole, ne ha cancellato alcune e ne ha aggiunto altre,  nuove, ma ci vuole tempo ad impararle  e non sempre  é piacevole. Altre parole sono solo cambiate, si sono arricchite di significati.  Il muro su cui tutti, tranne i più paurosi, si appoggiano é sempre  stato parte di una casa,  della mia casa, il riparo dei miei figli, ma ora é il posto dove sono stati ammazzati padre e figlio dai Tedeschi. Per la verità i Tedeschi volevano ammazzare solo il figlio. Era grande e grosso il figlio con due mani come badili e con un pugno aveva spaccato la faccia ad un SS troppo intraprendente con sua moglie che non era neanche particolarmente bella. Il padre, un sarto piccoletto e con i baffi ben curati, ha avuto la cattiva idea di mettersi tra le pallottole ed il figlio. Notoriamente le pallottole non distinguono i colpevoli dagli innocenti. La nuora del sarto con il suo bambino in braccio adesso è in fila con gli altri e ignora i buchi delle pallottole sul muro perché ore di fila stancano le gambe e la testa ed anche il dolore diventa abitudine e poi non fa più male. I maligni dicono che un soldato inglese pieno di lentiggini si è incaricato di curarle il dolore.  Una terapia notturna dicono i maligni, come si usava fare  prima della guerra e a volte anche durante. Un tempo, prima della guerra, tanto tempo fa, la notte ci trovava stanchi di ritorno dall’Arsenale o a far l’amore o a cantare sotto i balconi delle ragazze brune. Un giorno improvvisamente la notte é diventata coprifuoco e ha tolto il sonno e la voglia di fare l’amore.  Poi è diventata fuoco e rovine quando gli aerei Spadefish hanno deciso di vomitare sulle nostre  case con la scusa di colpire le navi incatenate ai moli.  Gli alleati erano i nemici sempre  in ascolto allora, ora sono gli amici  a cui non importa niente di quello che diciamo. Tutto cambia tutto si muove e cambiamo anche noi che siamo in fila, i maligni e gli altri, fermi, appoggiati a questo muro tutti, tranne i più paurosi che hanno paura di essere sorpassati come quella ragazza con il bambino rasato per mano.

“ Mamma mi sono stancato....andiamo  a casa”. Il bambino parla con la testa bassa e si pulisce la pianta dei piedi scalzi sfregandola contro l’altra gamba.  La madre gli carezza la testa rasata  dove qualche giorno prima c’erano i capelli neri come quelli di suo padre e lisci come i suoi.
“No Lino, dobbiamo prendere il pane. Finiscila e stai buono se no lo dico a papà quando torna”
“Uffà mà, voglio andare a giocare con Tanino”
“Va be, va be va ma non ti fare male”
La vecchia donna grassa vestita di nero le sorride: “Che ci vuoi fare figlia mia, so cosi i piccini”

Monday, April 11, 2011

Sette di tutto (I)


Lo squillo del telefono rimbalza tra le pareti piene di quadri della villa deserta. Rotola giù dalle scale e cerca qualcuno nelle stanze vuote. Si affaccia al giardino pieno di alberi che guardano le colline bolognesi. Dall’altro capo del telefono non vogliono arrendersi.
”Pronto!” 
La voce femminile è giovane e nervosa. Il timbro da fumatore, leggermente impastato.  Forse dormiva.
“Pronto? ...Buonasera. Chiedo scusa per il disturbo. Mi chiamo Franco Ayala. Vorrei parlare con la signora Lucia Lonoce”
“Questa è casa Lodigiani”
“Si lo sò, ha ragione...credo che Lonoce sia il nome da signorina della signora Lucia”
“Mia nonna si chiamava Lucia”
Come?.. Ha detto “si chiamava”?”
“Si, è morta il mese scorso” un’ ombra appena di tristezza.
”...mi...mi  dispiace...non sapevo...condoglianze...”
“Grazie, ma lei cosa voleva da mia nonna? Ci conosciamo?” La ragazza sembra una donna ora, forse lo è. Ha sicuramente recuperato  tutto il suo controllo, se mai l’avesse perso. La sua voce scivola come la lama di un pattino su una lastra di ghiaccio. Mette decisamente a disagio.
“No, non ci conosciamo. Senta, è un po' difficile da spiegare...”
“Ci provi”
Inspirazione  profonda, espirazione  lenta.
“Chiamo  da XXXX,  in Puglia...”
“Lo  so dov’è”
Ha carattere la ragazza.
“Ah...va bé, sa...molti  non lo sanno...”
“Io  sì, mio padre è nato laggiù”. Donna di cultura e di manganello, direi.
“Va bé, senta io non saprei da dove cominciare...”
“Cominci dall’inizio”
Non è carattere,  è proprio stronza.
“Certo...senta...dopo  la  morte di mio nonno paterno io ho trovato un suo vecchio diario che risale al periodo immediatamente successivo alla guerra”
“Quale guerra?”
“Bé, la seconda!”
Ci fai o ci sei?
“...comunque  in questo diario si parla molto di sua nonna. Mio nonno era una persona molto riservata, ma mi aveva accennato qualcosa una sera,  anni fà...”
“E allora?”
Fredda come un cadavere, con la differenza che di solito i cadaveri non hanno intenzione di essere freddi.
“E allora sembra  che mio nonno si fosse preso una bella cotta per sua nonna...sa ...una storia giovanile... in tempi di guerra, e quindi avevo pensato che magari sua nonna potesse avere piacere a ricevere questo ricordo, questo diario...”
“Ma che romantico!”
Puttana.
“Si  sono romantico, sono disgrazie che capitano...”
“Non si inalberi, la prego. Guardi forse farebbe meglio a parlare con mio padre che purtroppo adesso  è assente, signor...”
“Dottor Franco Ayala... con la ipsilon”
“Si... signor Franco Ayala con la ipsilon...se mi vuol lasciare un recapito mio padre la chiamerà appena possibile”
“Va bene, grazie...”
Grandissima puttana figlia di papà troia viziata.
La ragazza scrive il numero di telefono sulla copertina di un settimanale e riattacca. Riprende la bottiglia di vino bianco aperta e torna nella vasca da bagno  mentre i suoi piedi nudi lasciano per pochi secondi impronte di calore umido sul parquet. Si guarda allo specchio e con una mano pulisce le tracce di trucco sciolto intorno agli occhi.