Rat race

Running

Thursday, November 18, 2010

La funambola (I)

“C’ho capito poco Dotto’…l’abbiamo trovata sulla statale 228, vicino al lago di Viverona…no Viverone… il laghetto verso Biella…stava camminando al centro della strada …uno per poco non la investiva e c’ha chiamato …non parla…non aveva i documenti…e camminava scalza…capirai co’ sto freddo….”. Il poliziotto robusto dai capelli a spazzola, chiuso nel suo giubbotto scuro avrà venticinque anni, ed ha fretta di andarsene dal piccolo ospedale. Non gli piace quell’odore di disinfettante e di malattia che si respira nell’aria calda dei corridoi dalle tinte pastello. Stringe con la mano destra la visiera del suo berretto d’ordinanza tenuto sotto il braccio sinistro. Aspetta solo che il medico in camice ed occhiaie gli dica di andarsene, ma quello lo guarda assente e non dice nulla. “Dotto’ …noi la lasciamo in custodia vostra e dei carabinieri che arrivano tra un po’, va bene no? Noi eravamo solo di passaggio…non è pericolosa… deve essere solo fatta…” . 
Il medico del piccolo pronto soccorso sembra risvegliarsi “Si… si agente ci pensiamo noi…ma ha subito violenza?” “Non mi pare, dotto’…non parla comunque, è tranquilla, le dico può darsi drogata, ma non ha lividi sulla faccia o vestiti strappati…ok che non vuol dire, però non sembra…”
“Va bene, va bene agente, grazie ci pensiamo noi “.
Il poliziotto si rimette il berretto e saluta militarmente “Buona giornata allora”
“Buona giornata”.
Il poliziotto si allontana nel corridoio, si ferma un attimo per voltarsi  ma poi riprende la strada per l’uscita.
Il medico sospira e si avvia verso una porticina bianca, bussa ed entra immediatamente. Una giovane in camice, seduta a scrivere su una vecchia  scrivania con il piano in formica verde sobbalza. Vorrebbe dire qualcosa, ma riconosce l’invasore e stringe le labbra.
“Elena …in sala due, una drogata…forse stuprata o solo una prostituta… pensaci tu , per favore…chiama anche la psicologa e poi parla con i carabinieri che arrivano tra un po’, dillo pure a Nunzia …io sto  crollando e vado a casa…mi raccomando, ciao”. La porta si richiude seguita da un sospiro. Elena è l’ultima ruota del carro, l’ultimo medico assegnato al pronto soccorso invece che alla medicina d’urgenza, la prima linea di difesa e il primo parafulmine di tutti, pazienti, infermieri e colleghi. La ragazza minuta si alza dalla scrivania chiudendo una cartellina arancione, si risistema l’elastico che tiene ferma una coda di capelli castani ed esce dalla stanza trascinando i piedi. Si affaccia ad una stanzetta adiacente dove un borbottio aromatico denuncia la presenza di una caffettiera in azione. Accanto alla caffettiera nascosta un donnone biondo è accovacciato a controllare l’altezza della fiamma di un bruciatore a gas vietatissimo dalla direzione. La divisa bianca da infermiera dai larghi pantaloni è tesa sotto la pressione del grasso delle spalle e delle natiche.
“Ciao Nunzia”
Nunzia si solleva mostrando il suo metro e ottanta di grasso e due fessure scure al posto degli occhi.
“Che c’è?”
“Il dottor House è andato a casa, in sala due c’è una puttana forse…forse una violenza sessuale…non so”
Un sospiro aiuta il caffè a precipitare nella tazzina da bar che Nunzia avvicina subito alle labbra rosse.
“Nunzia come fai a berlo cosi bollente?”
In risposta due spalle larghe si sollevano per una frazione di secondo, mentre il caffè corre verso il suo destino.
“Dai andiamo…aspetta allora che prendo il kit…chiami tu la Lorenzi?”
“Faccio dopo”
Le due donne entrano in sala due, una stanza bianca occupata da un lettino,un armadio a vetri, una piccola scrivania e una finestra con vista su un parcheggio. Una donna con un impermeabile chiaro è seduta su una sedia in metallo nell’angolo accanto alla finestra. Fuori albeggia,  i lampioni del parcheggio tremolano e poi  si spengono. Le braccia serrate intorno al seno, le gambe chiuse, la testa piegata in avanti e il viso nascosto da una montagna di ricci non dicono nulla di buono.
“Buongiorno signora…io sono la dottoressa Malagodi… devo visitarla…adesso l’infermiera l’aiuta a spogliarsi…” Elena si siede alla scrivania  su cui poggia un modulo. Due gambe da lottatore di sumo portano velocemente Nunzia davanti alla donna seduta. Una grossa mano ingentilita da anelli che affondano nelle dita rotonde prende per un braccio la  donna riccia per invitarla ad alzarsi.
La donna con l’impermeabile si anima improvvisamente, si scrolla la mano di dosso e scatta indietro verso il muro. Un viso bellissimo mostra due occhi  scuri, grandi e arrossati, due occhi allungati da felino, e come un felino ruggisce.
 “NON MI TOCCHI!”
 Nunzia ed Elena si aspettavano una bella ragazza, una puttana, ma quella era una leonessa bellissima ed intensa, elegante. Se era una puttana era sicuramente costosa. Nell’aria aleggia un afrore stanco con una nota dolciastra di profumo: è l’odore della donna che copre quello di disinfettante della stanza che si riempie della sua presenza.
Nunzia è la prima che si riprende dall’esplosione di bellezza e si avvicina minacciosa  “Oh senti! Devi spogliarti ! Muoviti!”
Elena le appare accanto, le mani sollevate con i palmi aperti.
“Calma, calma! Nunzia calma…su signora da brava…”.
La dottoressa si avvicina alla donna che serra le braccia al petto. Una voce diversa da un attimo prima ferma Elena. “Non toccatemi ho detto…sono anche io un medico.”

Tuesday, November 9, 2010

ARCANGELO

Padre Marcello è un abitudinario. Si alza alle quattro del mattino, prega, esce a fare una passeggiata per il quartiere del Sacro Cuore, il quartiere della sua parrocchia e non c’è neve o pioggia che lo possano distogliere dal suo intento. Il rumore leggero dei suoi sandali sorveglia le strade, attraversa le tapparelle chiuse, tranquillizza e ammonisce “io sono qui, ci sono anche oggi”, sempre alla ricerca di ubriachi o drogati abbandonati per strada, in cerca di bisognosi d’aiuto. Più di una persona lo ha aspettato per strada per potergli parlare senza essere vista, per confessare peccati  che nel buio antelucano si possono bisbigliare o per dare informazioni o pettegolezzi su famiglie in difficoltà o madri e padri fedifraghi. Lui, povero vecchio energico, con il suo saio francescano ,ascolta ogni bisbiglio, ogni rantolo, ogni bisogno e come una rete raccoglie con i suoi sorrisi e le sue carezze, le molliche di tante vite perché non vadano sprecate. Un giorno ha raccolto anche un paio di sprangate, un’ altra volta una coltellata alla coscia per imparare a non interessarsi di questioni “non di sua pertinenza” come ha scritto un giornale locale. Gli è rimasta una cicatrice che è andata ad arricchire la sua personale  collezione  di tagli e fori risalenti ai tempi in cui era un paracadutista della Folgore. Da quando Padre Marcello pattuglia, il quartiere Sacro Cuore è un posto più sicuro e ormai sono dieci anni. Anche stamattina Padre Marcello attraversa la piazzetta silenziosa,  sale la bianca scalinata della vecchia chiesa ed entra dal portone principale che resta aperto di notte. L’aria all’interno della grande chiesa è meno fredda del solito. Due piccole luci sull’altare maggiore rischiarano le grandi  colonne che reggono una cupola buia li in alto. Su una panca al centro della navata dorme Domenico, un ragazzo slavo che non ricorda più il suo nome e che Padre Marcello ritrovò mezzo assiderato per strada all’alba di una domenica. Gli passa accanto, lo sente respirare leggero e gli carezza la testa come avrebbe voluto fare a suo figlio, se mai ne avesse avuto uno. La puntura di spillo nel petto viene subito anestetizzata dal pensiero di avere centinaia e centinaia di figli, di essere l’uomo più prolifico del mondo e la sua barbetta bianca viene smossa dall’arrivo di un sorriso. Padre Marcello da un’occhiata in giro, saluta i santi addormentati sulle vetrate e poi va a sedersi in un vecchio confessionale scuro e massiccio per riposarsi un po’. Seduto in quel buio sereno unisce le mani in grembo, la sinistra sotto la destra con il palmo rivolto in alto, i pollici che si toccano a formare un mudra, il respiro rallenta e il pensiero si focalizza sul chackra della radice, il contatto con la terra, con la sua energia vitale, antica. Padre Marcello ha imparato a considerare il proprio corpo e la propria anima come parte dell’universo e si lascia assorbire dal mondo ascoltandolo, senza paura, senza vergogna, nella quiete di un anima che ha conosciuto molto e sofferto ancora di più. Padre Marcello medita come ha imparato secoli fa in paesi lontani.
“Padre” Improvvisamente la sua mente torna carne, risente il peso del suo corpo, il battito accelerato del suo cuore. Qualcuno da dietro la grata del confessionale lo ha chiamato . Forse Domenico. No, non è Domenico. “Si… chi c’è?”
“Padre…mi scusi, non volevo spaventarla…”
La voce da uomo è calma, forse un po’ impastata dal sonno o dalla stanchezza. L’ombra disegnata sulla grata ha due occhi scuri, neri e profondi.
“No figliolo, non mi hai spaventato forse mi sono assopito…sai, sono vecchio…ma tu di che hai bisogno?”
“Mi scusi padre, avevo bisogno di parlare con qualcuno”.
Padre Marcello ha sentito quella frase milioni di volte, e ha capito che uno dei nomi dell’Inferno è solitudine. Anni prima, molti anni prima rimase due giorni in una buca con i cadaveri di due suoi amici, ferito e in attesa di morire e in quei due giorni per non morire, parlò con i suoi amici morti, con un filo d’erba gialla, con suo padre morto anni prima, con il suo fucile, con la foto di una ragazza bionda, ed infine con Dio, che fu l’unico a rispondergli facendo atterrare un elicottero a poche centinaia di metri. Parlare lo aveva salvato, ora qualcuno aveva bisogno di parlare forse per vivere. Poteva negarglielo?
“Vuoi dirmi come ti chiami? Io sono padre Marcello…”
“Io sono Arcangelo”
“Arcangelo? E’ un nome inusuale…”
“E’ il mio nome”
“E quanti anni hai? Vivi qui vicino? Dimmi di te…”
“Non so quanti anni ho e vengo da qui vicino”
La mano destra di Padre Marcello, ha lasciato l’altra in grembo e si è appoggiata sulle labbra quasi ad impedire di chiedere spiegazioni. Dall’altra parte della grata metallica c’è qualcuno che si è perso, non sa quanti anni ha, non sa o non vuole dire da dove arriva. Forse è un pazzo o forse un’ anima che ha solo bisogno di una mano che la tiri fuori dalla disperazione. Tacere ed ascoltare, Dio non fa proprio questo spesso e volentieri?
“Di cosa vuoi parlarmi, Arcangelo? Io sono qui, ti ascolto e anche se non vuoi confessarti quello che dirai resterà tra me e te. E’ una promessa. Stai tranquillo e parlami.”
“Padre Marcello, io ho bisogno di sapere alcune cose…io ho bisogno di sapere come si fa ad amare…e ad essere amati”
Padre Marcello sorride nel buio del confessionale, chiude gli occhi per un attimo e rivede la ragazza bionda della foto. Forse Arcangelo è un ferito della guerra dell’amore carnale, una donna gli ha magari prima fatto scoprire di avere un cuore e poi glielo ha stappato dal  petto. Succede, succede a tutti, ma nella maggior parte dei casi non si tratta di  ferite mortali. Il frate si accomoda meglio sulla panca fredda e si avvicina di più alla grata, sospira lentamente.
“Caro Arcangelo, bella domanda…che vuoi che ti dica? Amare è allo stesso tempo molto facile e molto difficile, ma è un qualcosa che ci appartiene, è …innato…istintivo… come la madre che ama il figlio o viceversa…o un uomo che ama una donna…”
“Cosa vuol dire innato, istintivo?”
“Mha…innato…cioè che è dentro di noi , nasce con noi , ci appartiene…è qualcosa per cui noi siamo nati, è qualcosa per cui noi siamo fatti…”
“Vuol dire che siamo programmati ad amare?”
“Si… in un certo senso si, amare, amare gli altri, amare Dio, il nostro Creatore”
“Io amo il mio Creatore”
“Ecco vedi che mi capisci? Poi bisogna amare anche gli altri esseri di questo universo, le altre persone, le altre creature viventi”
“Tutte le altre creature viventi ?”
“Si, anche se a volte è difficile, ma bisogna cercare di amare, amare, amare, senza paura di essere feriti…ama e fa ciò che vuoi “
“Padre io voglio amare”
“Bene allora fallo, serenamente e con semplicità, cosi come sei, Arcangelo, aiuta chi ha bisogno, parla con gli altri, fermati  e guarda il mondo che hai intorno…le stelle, le nubi, gli alberi, gli altri”
Il frate percepisce il disagio mentale dell’uomo della grata, Arcangelo e allo stesso tempo avverte un dolore senza nome, una fame d’amore e di vicinanza che spengono ogni allarme, ogni preoccupazione, ogni paura del vecchio paracadutista.  Percepisce il vuoto dietro quegli occhi scuri e affamati, un vuoto freddo che ha bisogno di un tentativo, almeno uno di colmarlo, non può tirarsi indietro.
“Ed essere amati? Cosi si fa ad essere amati?”
“Mha…quella è più una questione di fortuna, a volte, sai Arcangelo…ma, innanzitutto bisogna amare…poi il resto viene da se…esser ben disposti all’amore…cioè bisogna non pensare di non essere degni di essere amati, da una donna magari…poi c’è Dio che ci ama tutti, indipendentemente da ciò che siamo o facciamo,e lui c’è sempre…sempre!”
“Padre Marcello, Dio c’è sempre? Ci controlla?”
“No, Arcangelo…Dio non ci controlla, Dio ci ama, è al nostro fianco, nel nostro cuore, ci aiuta a compiere il bene e a non compiere il male…”
“Il male? Cos’è il male?”
“Arcangelo…il male è molte cose, cerca di capire… di seguirmi…il male è ad esempio uccidere…togliere la vita ad un altro essere umano…”
“Padre io uccido, allora compio il male. Perchè allora Dio non me lo impedisce?”
Gli occhi di Padre Marcello sono diventati due fessure mentre la testa si è allontanata istintivamente dalla grata. Le mani, prima giunte a cercare di trovare le parole adatte per un anima semplice e smarrita, ora si stringono tra loro con forza.
Chi è Arcangelo? Da dove viene? Il francescano ha esperienza di uomini di ogni razza e tipo e peccato.  Arcangelo non sembra un pazzo pericoloso, sente che non lo è , la sua voce non ha mai cambiato intonazione, è sempre rimasta calma e sincera, la voce di un uomo che ha bisogno di risposte ed amore. Padre Marcello non ha paura per se, al massimo  è preoccupato per Domenico che dorme sulla panca poco distante. La voce allora diventa ferma.
“Arcangelo cosa vuol dire che hai ucciso?”
“Io uccido perché questi sono gli ordini “
“Gli ordini di chi?”
“Questo è quello che io sono programmato a fare”
“Programmato da chi? Perché?”
La voce del vecchio frate sale di tono. Sente che il battito cardiaco accelera. Che mostro può programmare un uomo ad uccidere?
Domanda fatta, risposta arrivata. Padre Marcello si porta le mani al viso. Secoli fa anche lui era programmato per uccidere, in posti diversi, uomini diversi e ora ne rivede gli occhi che sperava di aver cancellato.
La voce ora è un rantolo “Arcangelo, perché? Perché?”
“Non lo so, Padre Marcello.”
“Signore perdonaci… perdonaci… perdona i nostri peccati…Arcangelo …prega con me, parlami…dimmi tutto figlio mio!”
“Non posso padre”
Il frate avverte un movimento dietro la grata, un’ ombra passa davanti al confessionale. L’istinto guida il francescano che si alza dalla panca in tempo per vedere l’ombra uscire dalla chiesa. Il vecchio corre più velocemente che può verso la porta della chiesa, la splanca e con gli occhi cerca la figura dell’uomo nella piazza vuota. Sparito. E’ rimasto solo un po’ di vento freddo che gli asciuga un sudore inaspettato dalle rughe. Padre Marcello rientra nella chiesa ancora buia sentendo la stanchezza di anni di cammino coagulata in mezzo al petto. Domenico è ancora li che dorme, ora russa leggermente. Il frate si inginocchia sul pavimento freddo e prega. Il motore di un auto che passa lontana copre, con la sua voce rauca, la litania del frate, mentre una lacrima muore sul marmo.


Voci da Wikipedia:

 ARC. ANG. Elo
Androide per Ricerca e Combattimento, prodotto dall’Agenzia Nazionale Governativa, dotata di intelligenza artificiale di base di grado 3150 calcolata con il metodo Elo modificato.
Caratterizzato da aspetto umanoide, notevole potenza di fuoco, capacita di volo sino a 500 miglia e capacità di pensiero autonomo e di apprendimento rapido è stato utilizzato a partire dal 2018 in molte operazioni antiterrorismo e antisabotaggio in territori ostili.

Elo
Il sistema Elo è un metodo per calcolare la forza relativa di un giocatore di scacchi.

Monday, November 8, 2010

Anche questa è fatta


Alberi , canali, casali, risaie, binari. E’ andato tutto liscio. Alle 19.10 sarò puntualmente a Novara. Nessuno lo saprà mai. Grande invenzione il cellulare. Non ho mai pensato a certe eventualità.  Stamattina in treno per Alessandria solita nebbiolina, risaie tristi e alberi in fila indiana. Neanche un bel nebbione denso che stimoli la fantasia. Penso ai miei studenti del Liceo Artistico, grumi di brufoli e fumo di canne, nessun artista tra di loro. Durante la caduta libera squilla il telefonino. Numero riservato. Rispondo. La voce femminile mi travolge e la ricerco nell’archivio. “Ciao amore...ci vediamo alle 4 al bar di fronte all’Acquario…ma lo sai che ti amo!?” “Si, ma io…” “Dai amore non trovare scuse, su…scappo ciao, ciao…baci, baci…”. Un errore, uno stupido errore. Ho risentito quella voce per tutta la mattina nella mia testa e ho disegnato il suo volto.  All’una telefono a mia moglie. “Ho una riunione sino alle cinque, sarò a casa per le sette. I bambini li prendi tu? Ciao amore”. Il treno invece mi porta nella direzione opposta, tra montagne e gallerie, up and down sino al mare che ho sentito lì in fondo. Mi manca il mare. In pianura è tutto immobile, allineato per far soldi. Prova ad allineare il mare, a non naufragare. L’autobus mi scarica all’Acquario alle 15.50 tra le barche a vela ormeggiate. Entro nel bar e ordino un caffè. Sento la voce ad un paio di metri da me. I capelli castani lunghi, la figura minuta, delicata e allegra. Adesso mi alzo.  “Scusi, ho ricevuto io la sua telefonata, mi spiace…ma la sua voce è come la brezza di Settembre. Una voce di anni fa, sa com’è…”. Magari mi sbaglio, magari non è lei, qui è pieno di donne. Esce. Pago in fretta ed esco. E’ scomparsa. Guardo l’orologio, mi respiro tutto il mare e vado via.  Alberi , canali, casali, risaie, binari.

Finale


Il caffè aveva appena aperto e il cameriere aveva poggiato sul mio tavolino un posacenere di plastica bianca. Avevo ordinato un caffè e guardavo i rari passanti attraversare rapidi la piazzetta ancora fredda della notte appena trascorsa. L’odore del caffè arrivò tre metri prima del cameriere. Lo sorseggiai chiuso nel mio cappotto mentre le ombre grigie della piazzetta schiarivano. I rumori delle prime auto cacciavano il silenzio del barista seminascosto dal bancone. Forse per questo non ti sentii arrivare. Mi ritrovai le tue braccia intorno al petto e la tua voce sulla pelle. “Sono qui “. Indossavi i tuoi occhi  verdi e un cappotto color miele. Un piccolo sorriso mi tagliò le labbra e le tue dita fredde accarezzarono la ferita. Affondasti il viso nel mio collo mentre ti stringevo e il barista fece finta di non vedere due vecchi abbracciati nelle 6 di un mattino di febbraio.  Lui non vide sicuramente la crepa che si chiudeva nel mio petto quando l’aria fredda della piazzetta mi entrò negli occhi, e mi allontanai abbracciato con te verso i giorni per cui ero nato.