Rat race

Running

Saturday, December 22, 2012

Madre teresa vs rat race

Ok, ok...il mondo non è finito, ma non è che scoppi di salute! Ho finito di girare per negozi (in realtà tre, gli uomini rispetto alle donne sono semplici e si innamorano facilmente) e quindi ho ufficialmnete chiuso gli acquisti natalizi. In mezzo all'orda serale che sciamava nel freddo alla ricerca di occasioni o sogni o simboli mi sono sentito un pò triste e deluso, perchè a vederla da fuori la nostra vita sembra proprio una rat race, una corsa da ratti dentro un labirinto, corriamo corriamo ma siamo sempre allo stesso punto. Allora ho pensato asd un qualcosa che ho imparato pochi giorni fa assistendo alla recita natalizia (molto bella, devo confessare) della mia primogenita (V elementare). Forse conoscete queste frasi, ma ve le ripropongo. Non commento. A me hanno scaldato un pò qualcosa di freddo che mi sono sentito sotto il cappotto, non so per voi, ma non fanno certo male. E poi, credo ci sia tanto da fare intorno a noi...
 Buone feste amici ratti!!!
Con affetto da B., un vecchio ratto.

Da una scritta sul muro di Shischu Bhavan la Casa dei bambini di Calcutta


L'uomo è irragionevole, illogico, egocentrico.
Non importa, amalo!

Se fai il bene ti attribuiranno secondi fini egoistici.
Non importa, fai il bene!
Se realizzi i tuoi obiettivi troverai falsi amici e veri nemici.
Non importa, realizzali!
Il bene che fai verrà domani dimenticato.
Non importa, fai il bene!
L'onestà e la sincerità ti rendono vulnerabile.
Non importa, sii franco e onesto.
Quello che per anni hai costruito può
essere distrutto in un attimo.
Non importa, costruisci.
Se aiuti la gente, se ne risentirà.
Non importa, aiutala.
Da al mondo il meglio di te e ti prenderanno a calci.
Non importa, dai il meglio di te! 


PS  ricorda molto la poesia "Se" di Kipling che era un Massone...maktub, tutto è scritto!

Friday, December 21, 2012

E voi ci siete?

Ciao,
ho controllato i parenti stretti. Ci sono tutti. Sto controllando gli amici con la scusa degli auguri. Ci sono quasi tutti, qualcuno non risponde, ma lo fa d'abitudine. I colleghi ci sono quasi tutti, alcuni per fortuna, altri purtroppo. E voi ci siete? Io si, anche perchè sto scrivendo quindi esisto (scribo ergo sum), ma potrei essere un programma senziente in grado di usare parole scelte in maniera casuale e creare un discorso di senso compiuto...o no? Poi a sentire i discorsi di alcuni personaggi in questi giorni mi sa che ci sono molti programmi senzienti che pescano a caso parole e cercano di comporre discorsi di senso compiuto, che però suonano metallici,  come certe vecchie voci artificiali...
Che peccato...i Maya  potevano essere più seri e selettivi: far sparire qualche simpaticone/a e lasciare in pace gli altri. Magari c'è qualche altra civiltà scomparsa che ha già pensato a questo, magari per il prossimo anno...magari hanno bisogno di suggerimenti...quasi quasi comincio a stilare una lista...anche voi, sopravvissuti al 21 dicembre? Scampato il pericolo ci si dovrebbe sentire migliori, purificati, forse più umani e buoni...mi sa che con me non ha funzionato...scusate torno alla lista. Auguri a tutti.
B

Friday, December 14, 2012

Novara sotto la neve 2012 (2)

Nevica a Novara. Suona bene, però...cosa ne penserà questo povero cane con cappottino? Smarrito nel parco che non riconosce più con tutta questa roba bianca intorno...e non è borotalco, che lo fa starnutire quando la padrona lo impana dopo il bagnetto...e non è la cocaina che sniffa il padrone di nascosto...nè la farina della con cui si fanno quei dolci cosi buoni...cose queta roba bianca e fredda su cui mi fa senso anche pisciare?
Non credo sia una buona idea mettere in testa ad un cagnolino dal muso (stavo scrivendo faccia) simpatico idee umane...magari lui si stava divertendo un mondo godendosi l'attimo, la novità, l'assoluto bianco della mattina.
Ecco, anche un cane ha qualcosa da insegnarmi!
Poi apro il Post e trovo questa striscia di Peanuts...che dire...maktub!
Buoni fiocchi  a tutti.
B

Friday, December 7, 2012

La partita di calcio della fine del mondo

Ho incontrato un vecchio stamattina. Bastone regolamentare nella mano destra, un lungo cappotto principe di Galles come non  ne vedevo da anni, sciarpa grigia. Camminava curvo rasente un muro in una via laterale. Gli passo accanto in bici e lo sento mormorare una litania. Parlava da solo. "Normale" penso "lo faccio anche io che ancora vecchio non sono". Ormai è tre, forse quattro metri alle mie spalle, e la mia mano destra stringe il freno. Non so perchè l'ho fatto. Il mestiere, forse. Forse penso che il vecchio sia in stato confusionale, magari si è perso, e se dovesse capitare a me tra qualche anno, mi piacerebbe se qualcuno si fermasse ad aiutarmi. Poi non ho fretta. Avevano previsto neve per oggi, ma c'è un timido sole e me lo voglio godere. Geni da geko. Mi volto "Scusi signore...". Lui si ferma e solleva la testa incoronata da lunghi capelli grigi, ispidi, disabituati al pettine. Gli occhi sono finestre scure incornicate da folte sopracciglia parenti strette dei capelli e della stessa indole. In fondo a quelle finestre un uomo sta tornando indietro da chissà dove per vedere chi sia questo scocciatore in bici. "Mi scusi...ha per caso bisogno di aiuto?". Mi sento al contempo l'uomo più buono del mondo e il più stupido. Il vecchio esita, abbassa un attimo il capo, lo risolleva come un bambino interrogato dalla maestra che si è improvvisamente ricordato la risposta giusta alla domanda di matematica. "Si...si, stò cercando un campo da calcio...". Ecco, bravo uomo-buono-che-si-ferma-in-bici. E adesso che si fà?
Faccio il conciliante. "Guardi qui intorno non ci sono campi da calcio...".
Il vecchio mi guarda quasi arrabbiato. "Si, lo so, lo so, me lo ha detto anche mia figlia...ma c'era, me lo ricordo, c'era!!!"
Il vecchio si stà agitando. Scendo dalla bici e mi avvicino sorridente. "Guardi magari è in un altro quartiere...lei dove abita? Sua figlia sa che è qui?"
Gli parlo come ad un bambino, anche perchè sembra un bambino con un viso lungo, affilato, smagrito da qualche farmaco. Dovrei dirmi che fa tenerezza, sembra indifeso, poi penso che vent'anni fa era magari uno di quei bastardi con cui mi scontro quotidianamente e il mio lato tenero torna sulla faccia buia della luna.
Il vecchio riabbassa la testa, sembra più curvo, più stanco.
"Senta...se vuole chiamo sua figlia e magari la può venire a prendere e...".
"No...no...me lo ricordo...lo so, lo so dov'è!" Mentre mi parla agita le mani in segno di diniego. Mi ricorda mia figlia la piccola quando non vuole più la pappa.
Questa idea mi frega. "Senta...e dove sarebbe allora il campo?"
Risolleva la testa: "vicino al palazzo della Marchesa!"
Sospiro e appoggio la bici al muro. Adesso si che sono nei casini. Marchesa? Che marchesa? Ma i nobili non li hanno fatti fuori durante la Rivoluzione Francese? Si, ma qu siamo in Italia? Ah, già, dimenticavo...
"Mi scusi, quale marchesa?" Non posso credere di aver posto questa domanda.
"Ma la MARCHESA!" mi risponde lui meravigliato dalla mia ignoranza "la marchesa Pa*****ni!".
La luce in fondo al tunnel. Una strada a cinquanta metri porta quel nome. Glielo dico. "Si, si, è quella!" Muove la testa dall'alto al basso come un cavallo, come un bambino. Che fregatura essere padre.
"Se vuole l'accompagno."
Eccomi qui: manubrio della bici nella destra, vecchio con bastone a sinistra, pirla al centro.
Il vecchio comincia a raccontare: "Quello era il campo dove la mia squadra giocava...altri tempi, ero un ragazzino bravo sa? Giocavo centravanti..."
"Io giocavo come stopper..." Non mi ascolta, ora è un ragazzino che sogna di diventare un nuovo Mazzola, o un Piola. Arriviamo davanti ad un palazzetto nobiliare con una targa sulla facciata. Il campo doveva essere da queste parti. Il vecchio continua a camminare. Ora sorride e indica col bastone. "Lì, lì! Il campo era lì!"
Forse cinquanta anni fa c'era un campo di calcio accanto ad una chiesa parrochiale. Ora vecchie palazzine leganti. Il Vecchio le guarda, si avvicina alla recinzione in ferro battuto. Con la mano libera vi si aggrappa. Temo non si senta bene. Emozioni deludenti non fanno mai bene. Guarda le palazzine. "Che peccato...che peccato!"
Gli sono alle spalle. "Senta  magari sono passati tanti anni..."
Non mi ascolta. Lo sguardo è perso nel vuoto. So che lui sta guardando il campo e due squadre di ragazzini che corrono nel fango.
"Una volta abbiamo giocato contro una squadra di Milano. Loro erano ricchi, con le maglie tutte uguali e nuove. Il presidente era uno ricco, uno molto ricco e suo figlio giocava in squadra...era centravanti come me, piccolo e magro, veloce...ma mica buono come me con i piedi...no, per niente..."
"Il nostro allenatore era il padre di un mio amico, il Fioravanti...lavorava in una fabbrica del presidente della squadra di Milano..."
"Li in fondo c'era lo spogliatoio". Con il bastone mi indica la saracinesca di un garage.
"Uno stanzone freddo e puzzolente...mica come adesso..."
Gli sono accanto ora, guardo anche io dalla finestra del tempo. Mi sembra di vederlo il bambino bianchissimo e magro che era, la riga precisa dei capelli e il freddo nelle ossa. Contento però di giocare a pallone anni dopo la guerra.
"Quel giorno il papà del Fioravanti ci disse di fare attenzione...di non fare fallo sul loro centravanti, sul figlio del padrone, dovevamo giocare puliti, eleganti."
"Io invece ero uno che non aveva paura di niente...tornavo a casa sempre tutto rotto e mia madre non mi faceva neanche entrare in casa..."
"Cominciammo a giocare. Loro erano bravini, passavano sempre la palla al figlio del presidente...che non era buono a fermarla..."
Il vecchio sorride ora. "Appena toccavamo palla noi loro facevano fallo e l'arbitro faceva finta di niente. Poi è arrivato il gol. La loro ala destra ha galoppato per tutto il campo. Bravo, molto bravo. Ha scavalcato il Giorgi, il nostro portierone alto e un pò scemo e poi ha fatto una cosa che ricordo ancora."
"Ha passato la palla al figlio del capo che l'ha portata dentro la porta e ha cominciato ad esultare come un pazzo, urlava..."
"La loro ala destra invece non ha fatto nulla...ha raccolto il pallone  e l'ha lanciato al nostro portiere ancora steso a terra."
"Abbiamo ricominciato a giocare, anche se io non ne avevo più voglia...poi, dopo qualche minuto la palla è andata a finire tra le gambe del figlio del presidente...io ero vicino ed elegantemente glielo tolta e ho cominciato a correre come un pazzo...poi ho sentito il fischio...mi sono girato e quello lì era steso a terra urlante...ma io non l'avevo toccato...e l'arbitro che mi fa girare per prendere il mio numero e ammonirmi...io che dicevo che non era vero...non l'avevo toccato..."
"Ho guardato verso la nostra panchina.. il mio allenatore guardava per terra ...mi sono avvicinato e ho visto i suoi occhi arrabbiati...ma io non avevo fatto niente"
La mano del vecchio stringe con tutta la forza di cui è capace la sbarra di ferro fredda ed indifferente a quell'antica ingiustizia.
 "Abbiamo ricominciato a giocare. Tutti i loro palloni finivano tra le gambe del figlio del presidente, sorridente ed incapace, che tirava gran bordate da centrocampo o provava passaggi fallimentari. I miei compagni giocavano con timidezza. Nessuno voleva che il padre del Fioravanti avesse guai. Neanche io. Ma il destino è strano"
"Un tiro corto del figlio del presidente mi ha messo la palla al piede. Il centravanti è uno tutto tecnica ed istinto, sa? Ho alzato la testa per guardare dove fossero i miei compagni e ho cominciato a galoppare. E io correvo forte."
Il bastone del vecchio si agita come un puledro.
"Ad un certo punto mi sono sentito tirare per la maglia. Il figlio del presidente si era attaccato alla maglia e tirava calci per togliermi il pallone. L'arbitro guardava e non fischiava."
"Io ero abituato ai calci nelle gambe, io ero un centravanti. Sa quante volte i terzini avversari scommettevano su quanto tempo sarei rimasto in piedi? E io ci restavo sempre, tanto..."
"E cosi correvo con questo attaccato alla maglia, correvo verso la porta mentre tutti restavano fermi. Il portiere avversario mi è venuto incontro per togliermi il pallone dai piedi"
Il vecchio sorride e mostra migliaia di rughe su quella faccia da bambino.
"Troppo lento e pauroso. L'ho scartato e ho segnato. Ho spinto via il figlio del presidente e ho guardato l'arbitro mentre alzavo le braccia al cielo".
"Lui ha guardato verso bordo campo dove un signore con il cappotto e il cappello si manteneva a distanza da un gruppo di persone che guardavano la partita. Il signore ha fatto un cenno con il capo e l'arbitro ha fischiato indicando il dischetto. Gol. Avevo fatto gol!"
"Il figlio del presidente invece era a terra davanti alla porta e urlava che non era gol, era fallo, fallo..."
"Il padre del Fioravanti mi ha chiamato dalla panchina...io ci sono arrivato a testa bassa....mi ha detto di uscire e ha chiamato Giavazzi, il cugino di Luisa, mia moglie. Io non ho protestato. Lui senza guardarmi e quasi senza muovere le labbra mi ha detto "Bravo!", ma io ero troppo triste per capire e sono andato a piangere nello spogliatoio..."
Il vecchio si è girato verso di me, sorridente. "Grazie...grazie per avermi portato qui, mi deve scusare sa...sono vecchio!"
Io scuoto la testa perchè non ho voglia di parlare. Non so se la storia sia vera, ma non importa.
"Sa come si chiamava il figlio del Presidente?"
Ci guardiamo un attimo negli occhi.
"No, ma tanto hanno tutti lo stesso nome...se vuole l'accompagno a casa o chiamiamo sua figlia..."
Mi sorride: "Si, grazie ". E di nuovo la bici a destra, il vecchio a sinistra e il pirla al centro.





Wednesday, November 28, 2012

Io e la tromba d'aria a Taranto

Non è un mistero per i visitatori di questo blog che io sia un tarantino. Uno nato e cresciuto a Taranto. Uno che l'ha abbandonata anni fa, molti anni fa. Uno che è stato abbandonato da lei anni fa, molti anni fa. Uno che la ama come si può amare una puttana (vedi post omonimo). Pensavo che il mio amore si fosse indebolito, diluito, perso come il mio accento, perso come la mia rabbia carnivora, perso come la luce dei suoi tramonti che esistono solo lì, tra le sue strade animate da un popolo strano e fuoriluogo in questo tempo crudele. Invece, questi giorni tristi dell'ILVA con delinquenti, collusi, corrotti e corruttori, preti sindaci, presidenti e assessori e  vendette di mezzeseghe similindustriali, mi hanno fatto capire che io sono ancora un Tarantino, uno che si arrabbia, uno che combatte, uno che risale la china, uno che naviga di bolina stretta. Ascoltando la radio in auto stringevo il volante pensando a tutti i piccoli Tarantini che la storia ha incastrato in una trappola senza apparente via di uscita. "Non mollate, non mollate, non mollate...ribellatevi, non piegatevi, coraggio coraggio..." questo pensavo fermo al semaforo. Un cretino dentro l'unica auto in fila dietro la mia (alle sei del mattino) mi ha suonato appena è scattato il verde. Un cretino frettoloso. Ho staccato il piede dal pedale della frizione, due, tre metri e ho inchiodato tirando il freno a mano. E ho aspettato. Uno stupido terrone direte. Si,  è vero. Il cretino ha esitato. Ho contato sino a dieci. Sono ripartito. Lui no. Sono stato uno stupido terrone. Si. In quel momento cercavo qualcuno con cui prendermela. La prossima volta devo pensare che anche l'altro potrebbe essere nella mia stessa condizione. Pazienza, è andata così. La rabbia è una cattiva consigliera. Poi stamattina, nella tarda mattinata, la mia donna mi ha mandato un sms. "Amore è successo qualcosa di brutto a Taranto chiama tua madre".
 Torno in studio, sito di Repubblica...tromba d'aria a Taranto...danni...feriti...un disperso...gru divelta e scagliata in mare. Guardo un video, riconosco la zona, l'accento e vedo questa nuvola enorme  e nera che ruota come un dito di Dio che voglia schiacciare un pidocchio. Vedo lampi ed esplosioni da film e vedo la tromba d'aria che si sposta urlando. E mi accorgo che sono ferito. Dentro. La porta dello studio è chiusa. Una lacrima si decide a uscire senza che me ne accorga. E' salata sulla labbra. Penso. "E ora che cos'altro potete farci? Siamo gli ultimi in tutte le classifiche, dove potete retrocederci?"
Un altro video del porto, auto accatastate, voci di gente in auto, dialetto, tra le parole sento sciolta la paura e questo mi fa male.
Non vivo li da secoli, ma una parte di me non è mai andata via, mai, e non ci posso fare niente.
Ora Tarantini, ultimi degli ultimi, sopravvissuti di un altro tempo, navigatori di guai, non mollate, non mollate, non mollate, per i vostri figli, per i nostri figli e per noi, per le donne senza denti che ho visto in un docufilm l'altro giorno, per tutti gli sconfitti come noi, non mollate. Fratelli miei neanche i tornadi possono spezzarci, alzate la testa e guardate oltre le ciminiere, oltre tutto. Coraggio fratelli miei non vi arrendete.
B

Wednesday, November 7, 2012

Obama for MY president

Confesso che sono contento, e confesso anche che sono stato commosso da questa foto. Chi di noi non abbraccerebbe la donna o l'uomo o il cane che ama dopo una vottoria cosi sudata? Confesso inoltre che sono invidioso, perchè ho ascoltato il discorso del nuovo/vecchio presidente degli Stati Uniti e ho invidiato un popolo a cui viene detto di sognare e combattere e lavorare per i propri sogni che si possono avverare. Come dargli torto? Io (noi)  invece che discorsi ascoltiamo? Lasciamo stare, oggi sono contento per qulcosa che probabilmente non cambierà una virgola della mia vita reale, ma moltissimo della mia vita spirituale (che è anche reale, però...).
Insomma ho scritto questo post per rileggerlo tra qualche mese o anno e per poter pensare che si può e deve vivere meglio di così.
Buona giornata a tutti e a Lei mister President.
B

Wednesday, October 17, 2012

L'uomo calvo (ed altri casi umani)

Prima di rientrare a casa mi fermai ad una cabina telefonica senza porta e chiamai mia madre con un residuo di carta telefonica. Allora il cellulare era un lusso per pochi e a me non piaceva nemmeno. Come l'uva alla volpe.  Mi rispose dopo cinque squilli, con la sua voce stanca e lontana, la stessa che dovevava avermi cantato ninnananne che non ricordavo, la stessa voce che doveva aver detto "ti amo" a mio padre almeno una volta.
"Ciao Ma', sono io!"
"Ciao amore...come è andata?".
La sua voce si era riempita di vita, le dovevo mancare, le mancavano due braccia e due occhi in più, le mancava un pezzo della sua carne, forse. Sentivo la sua solitudine  e mi straziava.
"Bene Ma', devo tornare per un altro colloquio tra tre giorni...è una selezione lunga..."
Mentivo e prendevo tempo, mentivo per paura. Avevo paura di deluderla ancora, anche se in quel momento sentivo crescere dentro di me rabbia e determinazione. Decisi che avrei difeso quel posto piovuto dal cielo con tutte le forze, decisi che l'avrei fatto per loro, per quelle anime lontane e sofferenti. Questa idea mi tolse il fiato, sentii le gambe cedere, forse ero umano dopo tutto, non completamente assuefatto al mondo. Reagivo, ero forse  ancora vivo.
"Ah, va bene amore... non ti preoccupare...sento che questa è la volta buona per te...abbi fiducia e non ti abbattere!"
Il solito ammonimento a non mollare. Se io non avessi mollato anche loro avrebbero resistito. Ero in qualche modo responsabile. Una parte di me avrebbe voluto urlarle che ero stato assunto, ma la prudenza, matrigna puttana di ogni fallito, mi tappò la bocca con le sue belle mani curate e pulite. Era troppo rischioso darle una tale notizia in quella situazione. Tanto, magari, domani sarebbe terminato tutto, mi sarei ritrovato di nuovo in strada a cercare lavoro.
"Tranquilla Ma', non mollo...Pa' come sta?"
"Dorme...non ti preoccupare, glielo dico che hai chiamato."
"Va bene Mà, ciao"
"Ciao, Amore".
Riattaccai la cornetta e mi poggiai al vetro sporco della cabina. Nella parete di fronte un piccolo manifesto di una agenzia di viaggi  prometteva prezzi fanatastici per una vacanza invernale in Egitto. Pensai alle piramidi. Mi sarebbe piaciuto visitarle. Mi sarebbe piaciuto fare molte cose.
Passò davanti alla cabina una ragazza bruna, avrà avuto ventitre, forse venticinque anni, giovane comunque, giovane  e bella con lunghi capelli rossi che ballavano sul collo del suo cappottino chiaro che arrivava sino agli stivali neri. Qualcuno ululò dentro di me, la vita mi chiamava. Usciì dalla cabina e la vidi entrare in un portone poco distante e sparire tra le ombre dell'androne. Mi fermai e contai sino a trenta. Magari sarebbe tornata indietro. Non lo fece. Guardai il numero civico: 97. Come i miei giorni di astinenza dalla scrittura. A quei tempi scrivevo ogni giorno. Decisi di scrivere qualcosa su quella ombra di felicità che mi era passata davanti e che forse un giorno avrei rivisto uscire da quel portone e venirmi incontro preceduta dal suo sorriso. Decisi che mi sentivo troppo solo. Decisi di smettre di pensare e di tornare a casa. Mi sentivo come sballottato sulle montagne russe di sentimenti contastanti, felice e rassegnato allo stesso tempo. Arrivai a casa e infilai le chiavi nella toppa della porta. Entrai e trovai Bud e Dave seduti al tavolo a giocare a carte. Non era mai capitato prima che li vedessi cosi rilassati ed affacendati, di solito mi apparivano all'improvviso mentre scrivevo. Ne fui un pò spaventato e allo stesso tempo fui felice che qualcuno fosse a casa ad aspettarmi.
"Ciao ragazzi...non crederete a cosa stò per raccontarvi..."
Si voltarono leggermente verso di me, poi si guardarono e sorrisero.
"Che c'è?" chiesi perplesso.
Dave mi rispose aggiunstandosi le carte in mano. "Niente... ma scommetto che ti hanno assunto...vero?"
Lo guardai. Stavo per chiedergli come diavolo facesse a saperlo, ma mi accorsi di Bud. Rideva, rideva e cercava di trattenersi mettendosi una mano davanti alla bocca. Era rosso in viso, quasi non respirava a causa di quella risata soffocata.
Non si trattenne più e la sua risata contaggiò anche Dave. ridevano piegati in due , le carte cadderò per terra. "Che faccia di cazzo, Bartel...Dio che faccia di cazzo hai!!!" riusci a dirmi Bud.
Ridevano e piangevano allo stesso tempo. Allora capiì. Erano stati loro. Si calmarono e mi raccontarono. Mi avevano seguito e fatto una visita al Direttore Generale spiegandogli che era suo interesse assumere uno come me, ed assumermi al volo. Dovevo ammettere che erano stati convincenti. Mi sedetti per terra e ci guardammo a lungo. Loro mi sorridevano benigi. Non so come all'improvviso glielo dissi.
"Grazie."



Monday, October 8, 2012

SE SO' MACO,SO' MACOOOO !!!!

Ebbene si, come diceva il Mago di Segrate "Se so' maco, so' macooo!!!".
Il post che vedete l'avevo scritto alla fine delle scorse elezioni amministrative qui in Piemonte. Più di Poi non l'avevo pubblicato, dovevo aggiungerci qualcosa...poi come al solito arrivano altre situazioni, altre idee ed il post resta lì come un draft abbandonato e polveroso. Ed invece era un post profetico... leggete e poi mi dite...so' maco e me ne vanto!!!

Si, inutile nasconderlo, tanto viene tutto a galla. Sentimenti compresi. Inutile fare finta di niente, ignorare sia l'irritazione che l'ottimismo. Irritazione per le bambinate indegne, ottimismo perchè a volte questi posti ti sorprendono. E' un mese che non posto, troppo da fare, troppo da rincorrere, troppo da parare e se vivi a bassa frequenza trasmetti poco, e ciò che è più grave ricevi poco dall'universo mondo, poco di tutto. Poi ieri pomeriggio qualche parte di Italia ha presentato sorprese ampiamente annunciate e ti sorprendi a pensare: "Però, eh...te pensa...". Poi a casa tua succede di tutto, succede che una parte politica (no, una parte sociale) data per sconfitta al primo turno (ricorderò per sempre il sindaco in pectore quindici giorni fa dire, con la sua faccia da Mr.Bean- non insulto, è proprio uguale!-, "sono sereno, ci sono 15 punti di distacco...") vince e vince bene. Eppure la città in cui vivo, rispetto ad altre è ben governata anche se ultimamente nell'aria si comincia a sentire l'insofferenza per certi atteggiamenti grossolani, per certa arroganza, un pò di riflesso nazionale, un pò troppi cretini in giro che offrono penne e caramelle e colazioni e aperitivi e cominci a sentirti un pò popolo bue, un pò cavallo comandato dai porci (Orwell) e pensi "e se gli dessi una scossettina, leggera, cosi per vedere?". Invece è un elettroshock! Ops, sorry, I didn't mean it...avete imparato? Nulla dura per sempre, né la vigliaccheria né l'arroganza, né il menefreghismo, né certe facce laide da ladri o profittatori (se ne accorge il tuo istinto, quando ti parlano porti la mano a controllare il portafogli nella tasca della giacca). La prossima volta presentate gente più presentabile, meno abbronzata (non perchè lavori nei campi) e che sappia dire due parole in croce senza copione e che magari abbia una idea propria originale (che non sia quella di sistemarsi con tutta la famiglia). La prossima volta presentate delle persone per bene, che si facciano conoscere prima delle elezioni (cioè ti dicano "Buongiorno" se ti incrociano) e che non lascino una scia di bava e cerone (e parlo di uomini e donne che ti sorridono da foto photoshoppate).
 La prossima volta che andrò a votare voglio votare per uomini e donne che pensano di far qualcosa per tutti, e me ne frego del colore, in politica sono daltonico. Si sono un coglione ottimista, te pensa, e allora?
Pace e bene e buon lavoro italiani.

Duduk

Si va bè, la solita storia. Quando meno te lo aspetti scopri qualcosa di nuovo e scopri che poi nuovo non è. E' sempre stato lì, sotto i tuoi pocchi pigri che guardano e non vedono,. In questo caso sotto le tue orecchie che sebntono e non ascoltano. Svelo l'arcano (da Arca...il resto se volete ve lo cercate). Venerdi sera a cena a casa di amici, uno di loro, un ingegnere,  appena tornato dall'Armenia. "E che ci sei andato a fare?"
"Paese molto bello... una storia incredibile, ci sono arrivato con colleghi della zona che mi hanno portato in giro per un paio di giorni...bla, bla, bla, bla bla bla... bello...mangiato roba...bla bla bla e poi senti che musica!".
Si alza, prende dalla giacca un CD con sulla copertina sette-otto uomini in giacca e camicia bianca, alcuni seduti altri in piedi sullo sfondo una parete piena di libri. Non riseco a leggere le scritte. Poi dallo stereo parte una musica dolce, triste e profonda. Sembra un oboe. Scivolo un attimo dentro di me.  La voce del mio amico  mi è quasi di fastidio.
"Pensa che questa specie di flautoè presente nella loro cultura almeno dal 1200 avanti Cristo."
Non so perchè mi torna in mente Roma, settecento avanti Cristo.
Lo strumento si chiama duduk, ma il mio amico mi spiega che è una forma semplificata del nome originale che dovrebbe essere Tsiranapogh. Poi lui continua sulla strage degli armeni, la loro diaspora.  Ho già sentito quella musica, in qualche colonna sonora, da qualche parte, ma ora qualcosa dentro di me risuona, reagisce a quelle note cosi antiche. Note spirituali. Mi rendo conto della pochezza del mio linguaggio nel descrivere qualcosa di nuovo e allo stesso tempo di ancestrale. Vorrei che tutti tacessero. Mi sa che sto diventando un vecchio rompiballe. Ascolto. Mi appare la faccia triste di Charlez Aznavour. Venerdi notte dormo male. Sabato ascolto mia figlia suonare una Danza di Mozart. Mi accorgo che ho fame, o forse sete. Ho sete di spirito, di eterno, di bello, di assoluto. Una sete terribile.

Wednesday, October 3, 2012

L'uomo calvo (bulli e belli)

Qualcuno mi scosse per le spalle e mi svegliò. Istintivamente guardai l'orologio. Era passata mezz'ora e io non ero sicuro di dove fossi. Me lo ricordò il ragazzo che mi aveva indicato la scrivania vuota."Il capo ti deve parlare...fuori ... in corridoio..."
Mi stropicciai gli occhi."Chi?"
Il ragazzo mi ringhio contro: "Oh! Sveglia!!! Il capo, il Dottor Lavagni, ti vuole parlare qui fuori..."
Mi alzai di scatto e lo guardai dritto in faccia. Il ragazzo indietreggiò. Lo chiamo ragazzo, ma doveva essere di un paio di anni più vecchio di me, magari un paio di anni passati al guinzaglio a mangiare da una ciotola. Il cocco del capo comunque aveva capito che non ero li per farmi maltrattare. Linguaggio corporale, linguaggio universale. Cominciavo a sentirmi stanco e confuso: io non avevo chiesto niente a nessuno. Mi avevano assunto per un miracolo e adesso questi cani bavosi mi ringhiavano contro. E il capo in sedia a rotelle mi aspettava fuori!  Usci dalla stanza sentendomi gli sguardi di tutti conficcati nella schiena. In fondo al corridoio mi aspettava il capo, il dottor Lavagni. Vidi la parte posteriore della sedia a rotelle e i suoi capelli ingrigiti. Guardava fuori da una vetrata il traffico di mezza mattina, lento e indifferente. Avvertì la mia presenza e grazie ad un rapido e coordinato movimento delle mani la sua sedia a rotelle roteò e si blocco con un leggero fremito del metallo proprio davanti ai miei piedi. Il volto era congestionato, gli occhi mi sembravno completamente gialli, due macchie di sudore si allargavano sulla sua camicia.
"Ascoltami bene ragazzo" cominciò trattenendo a fatica il tono della voce.
"Io non so chi sei e non mi interessa, ma so che ti devi licenziare, anzi non devi firmare la lettera di assunzione ...hai capito? lo dico per il tuo bene, capisci?"
"Veramente il Direttore mi ha..."
"Non me ne frega un cazzo di quello che ha detto il direttore!"" mi sibilò contro.
"Tu qui sei carne morta hai capito? Sono io che comando e non ti voglio hai capito, coglione? Non ti voglio e ti creerò una vita di inferno qui! E' meglio che sparisci!"
Lo guardai in faccia.  Sono cresciuto in un quartiere periferico della mia città, palazzoni bianco-grigi tutti uguali, brutti e tristi, abitati da gente brutta e triste. Io non ero nè brutto, nè triste grazie ai miei genitori. Per questo avevo dovuto combattere molte battaglie. Ero stato preso di mira dai bulli della zona e avevo attraversato tunnel difficili da descrivere. Sapevo che il sudore della paura è freddo e puzza, conoscevo le corse in pullman sperando che nessuno salisse a certe fermate, ricordavo le preghiere inutili per chiedere aiuto a un Dio indaffarato, rivedevo le scene di umiliazione, ricordavo lo sconforto che piega le spalle prima e le gambe dopo, ricordavo la paura della morte. Ma ricordavo anche la cavalcata della rabbia, il furore cieco, il gusto del sangue, la scoperta di essere capace di infliggere dolore, il piacere di vendicarsi, la freddezza nel farlo ancora ed ancora ed ancora. Avevo attarversato luoghi di cui quel tizio in carrozzella non conosceva nemmeno l'esistenza. Ed ero sopravvissuto.
Mi sentiì pronunciare due sillabe pesanti "No!".
Per un attimo pensai che il dottor Lavagni si sarebbe accasciato per un infarto. Vedevo le vene del suo collo in rilievo,come i muscoli sulla sua mandibola. Era paonazzo, furioso. Non disse nulla, ma per poco non mi investì con la sua carrozzella che volò via verso la porta dello stanzone che aprì con agilità e chiuse con furore. Io rimasi nel corridoio mentre l'eco della porta sbattuta mi oltrepassava ed andava a morire verso altre stanze e stanzette di quel formicaio. Avevo vinto una battaglia. Sulla vittoria della guerra non ci avrei scommesso una lira. Era inutile restare lì per quel giorno. Apriì la porta dello stanzone nell'indifferenza generale. Nessuno si voltò, nessuno fece cennò di aver avvertito la mia presenza. Raccolsi la mia borsa e salutai educatamente. Nessuno rispose. Usciì  e sorrisi al corridoio. Cercai l'ufficetto della segretaria e dopo dieci minuti di girovagare lo trovai. Dissi che per quel giorno non avevano bisogno di me e ritirai mezzo chilo di moduli da riempire e firmare. Avrei voluto salutare e ringraziare il direttore, ma la segretaria con un sorriso finto e una espressione che non capiì mi disse che il signor Direttore era fuori per questioni urgenti. Annuii educatamente ed andai via.
Per strada l'aria fresca mi colpì prima il viso poi i polmoni. Guardavo la strada. i rari passanti, le auto e i furgoni come se li vedessi per la prima volta, come se fossi sbarcato dopo un viaggio di qualche anno luce dalla costellazione di Orione. Forse era così. Camminai e mi accorsi chela mia borsa semi vuota mi dondoolava eccessivamente, come la caretlla di uno scolaro elementare. Mi efrmai a guardare una vetrina di un negozio di abbigliamento maschile. Vestiti scuri, vestiti grigi, vestiti da persone serie e cravatte, centinaia di cravatte. Il loro prezzo era eccessivo per me e per molti di quelli che conoscevo. Decisi di entrare e comprarmene una. Ero ottimista e drogato. Da allora, ogni volta che mi accade qualcosa di positivo compro una cracvatta nuova. L'ho fatto anche il giorno dopo aver conosciuto Julia a Parigi, l'ho fatto tante volete da quel giorno. La cravatta  era scura con dei piccoli gigli stilizzati grigi. L'ho ancora in armadio. Camminai per un'ora buona e arrivai vicino casa. Poi vidi il mio palazzo in fondo alla via e un forte brontolio del mio stomaco mi ricordò che ero umano ed avevo fame. Forse da quel giorno avrei potuto mangiare di più. Avrei offerto qualcosa di meglio anche a Bud e Dave, altre storie come quella dell'uomo incazzato in carrozzella. Risi. Una signora con due borse di plastica piene di spesa mi guardò un pò allarmata. Le sorrisi con tutti i denti a disposizione. Lei accellerò, non senza fatica, il passo. Era quella la felicità? Una cravatta nuova, degli amici immaginari, uno stomaco affamato e un nuovo lavoro, anzi un lavoro in una vasca di piranha?

Tuesday, September 25, 2012

Just a perfect day (finale con brio)

Che bella la primavera  a Gerusalemme! Un rondone fa colazione nell'aria fresca del mattino e mi informa della sua contentezza con una voce stridula. Scendo verso il campo e in lontananza vedo la cupola d'oro che comincia a splendere nel silenzio  e in questa luce penso che questo posto sia meraviglioso se dimentichi per un attimo che questa è in realtà una zona di guerra ed odio tra gente che prega lo stesso Dio, ma lo chiama con nomi differenti. Assurdo per uno come me che viene dall'Occidente senza Dio. Assurdo che io cerchi Dio tra le pietre morte di palazzi e case morte dove trovo scritte in lingue morte. Troppa morte in giro e poi una mattina ti svegli in questa aria frizzante e ti viene da fischiettare e camminare con le mani in tasca.
 Just a perfect day...I'm glad I spent with you...mmm...mmm...mmm...just a perfect day...you make me  forgot myself...mmm...
A quest'ora chi ci sarà al campo? Julian, bravo ma irritante...Elisabeth...Elisabeth con le lentiggini e già piegata a scavare nell'ultima casa che abbiamo scoperto e quasi completamente disseppellito. Questa è la terza nell'ultimo anno, non mi faccio più illusioni sul fatto che si possa trovare chissà quale sorpresa...solo polvere e pezzi di vasi rotti...nessuna scritta, nessun rotolo, niente...anche nell'antichità vi erano luoghi senza senso come  sale d'attesa di aereoporti di provincia o parcheggi dei supermercati. Tutto vuoto, magari utile, ma vuoto e cosi qui, in quello che doveva essere un quartiere di gente strana, probabilmente forestieri, probabilmente  di passaggio nella Gerusalemme del X secolo prima di Cristo. Potevano essere artigiani, o mercanti, di sicuro non lavoravano qui, sembra un piccolo quartiere residenziale, nessuna bottega, nessun laboratorio, una sorta di dormitorio...magari tra un pò salterà fuori qualcosa...speriamo....magari oggi Elisabeth, la bella Elisabeth...ma devo stare buono...ho troppi capelli grigi e rischio brutte figure e poi mi farei pena...il Professore e la studentessa...certo quanto ti passa accanto con il suo profumo fresco e quella coda alta di capelli biondi e quelle curve sotto la tela dei pantaloni da lavoro e ...e il suo sorriso... la pelle abbronzata...basta, basta! Ho detto basta...guarda piuttosto dove metti i piedi!"
Il Professor Santandrea scende svelto il ripido sentiero che porta all'ultima parte degli scavi nei pressi dei pozzi di El Gib, dove, secondo il Libro dei Re, Salomone in sogno chiese al Signore il dono della sapienza.
 Alcuni operai lo salutano mentre passa fischiettando. Gli operai, tutti arabi delle vicinanze, sono al lavoro già da un'ora. La pancia prominente del Professore sballonzola mente saltella verso la casa 134, lo scavo dove ha intravisto l'ondeggiare biondo dei capelli di  Elisabeth, la sua dottoranda inglese, brava quanto bella e tanto, ma tanto irraggiungibile.
"Ciao Eli...". La ragazza  è inginocchiata vicino ad una pietra d'angolo di un muro di sostegno mezzo crollato e sta freneticamente lavorando a disseppellire qualcosa. Non risponde e non si volta nemmeno. Il professore intuisce il perchè di quei movimenti rapidi e decisi. Li sotto c'è qualcosa, anche se quello non è il modo di scavare di un archeologo...ah, i giovani! "Elisabeth! Che c'è? Che hai trovato?" Il professore si inginocchia accanto alla ragazza, preoccupato che possa rovinare qualche reperto che si trova lì, in una piccola fossa che doveva essere nascosta da quel coperchio di pietra triangolare con un disegno particolare inciso sopra...sembrano due serpendi annodati.... Si, c'è qualcosa! Le mani dei due si incrociano in una gara di velocità, il Professore è più abile ed esperto, vince ed tra le sue mani si materializza una piccola anfora di una quarantina di centimetri d'altezza, senza manici, chiusa da un tappo di cera. Sull'anfora si nota in rosso la stessa figura del coperchio triangolare, due serpenti che si incrociano, una due...cinque... sette volte.
Il professore e la ragazza si guardano per un attimo in silenzio. Lo sguardo della ragazza è duro, freddo. Il professore ne resta stupito, ma l'anfora tra le mani lo richiama. Lui ne pulisci rapidamente il resto della superficie e vede una piccola scritta in aramaico, una parola, un nome forse: Hiram.

"Eli, Eli, ma ti rendi conto?! Hiram, il costruttore del Tempio, Hiram è esistito ...è un reperto incredibile ...presto andiamo a ..."
La voce gli si è affievolita in gola quando ha visto la mano di Elisabeth allungarsi sul suo volto per accarezzarlo. Poi si è zittito completamente, anzi ha smesso di respirare quando l'altra mano della splendida ragazza inginocchiata accanto si è posata come una farfalla sul suo collo. Il professore pensa in un angolo periferico della sua mente che a volte la vita riserva alcune sorprese cosi incredibili...il fascino dell'esperienza, l'emozione del momento...e si osserva mentre la ragazza ad occhi chiusi si avvicina con le labbra pronte...poi accade.
La mano destra della ragazza sollva la mandibola dell'uomo e la ruota, gli spezza il collo con rapida ferocia. L'ultimo pensiero del professore è "Ahia!". l'anfora cade, ma prima che tocchi terra Elisabeth l'afferra, metre il corpo del professore con gli occhi aperti cade indietro lentamente ed urta il muro di pietre che nascondeva tutta la scena.
Elisabeth si alza, nasconde l'anfora e  il coperchio nel suo zaino, allunga le gambe dell'uomo, si inginocchia al lato della sua testa, la solleva e con forza la sbatte due, tre volte sulle pietre aguzze, poi si alza e comincia ad urlare verso gli operai: "Aiuto aiuto...il professore è caduto...aiuto!!!!"

                                                                                        ***
L'uomo seduto dietro la scrivania estrae dalla tasca un accendino color argento, si accende una sigaretta e aspira con avidità la prima boccata. Guarda la giovane bionda in piedi e le sorride rilassandosi nella poltrona in pelle scura. Sorride e le rughe agli angoli dei suoi occhi diventano piccole ferite.
"Lei ha fatto un buon lavoro agente...mi creda, un ottimo lavoro...mi spiace per il Professore, un brav'uomo, un pò maldestro, una caduta prima o poi era imnevitabile...può andare ora, torni al suo Dipartimento e si dimentichi questa storia. Stia tranquilla che comunque io non mi dimenticherò di lei...arrivederci."
La ragazza non sorride, si volta, apre la porta massiccia ed esce dalla stanza. Ha appena salito un altro gradino della sua personale scala del successo. lo ha fatto passando sul collo del Porfessor Santandrea. Un piccolo sacrificio.
L'uomo nella stanza fuma rilassato. Ha tra le mani un documento che vale moltissimo. Lo venderà a caro prezzo o lo distruggerà a carissimo prezzo. Comunque ci guadagnerà tanto. Sulla scrivania tra l'anfora e il coperchio triangolare c'è una pergamena protezza da una strana busta in plastica trasparente collegata ad un valcola bianca. La pergamena ha più di tremila anni, ma è conservata perfettamente e attraverso la plastica le scritte in aramaico spiccano nere e vive. L'uomo rilegge ancora a voce alta:

"Io Joachim, figlio di Hiram, il costruttore del Tempio dell'Altissimo, lascio queste parole ai figli dei figli della promessa delle stelle.
La grande opera non è compiuta a causa del male, la punizione si abbatte su Gerusalemme e sulla sua gente perchè un uomo giusto è stato sacrificato come un agnello nel Tempio.
Il ponte tra l'Altissimo e gli uomini è interrotto.
Mio padre Hiram è morto e con lui i segreti della Parola, ma non la Parola, che ancora echeggia e vibra in questo mondo e gli dà forma e sostanza.
Verranno uomini che ascolteranno, verranno uomini che sentiranno l'eco della parola nei loro cuori, verranno uomini che guarderanno il cielo con occhi puri e capiranno e parleranno la lingua di Dio e l'Altissimo parlerà ancora con loro.
A questi uomini io dico di guardare nel fondo della loro anima per innalzare il loro spirito.
Cercando nella terra troveranno ciò che serve per ascoltare la Parola.
Guardando il cielo scopriranno la terra e potranno costruire il ponte per l'Altissimo. Loro sarà il potere che viene dall'Altissimo e le pietre e l'acqua e il fuoco e l'aria obbediranno alla loro volontà.
Così è stato promesso, cosi sarà  per noi che siamo figli della promessa dell'Altissimo e dei suoi messaggeri che abitavano tra noi insegnandoci la via della pace e della conoscenza che scende dall'alto e dal basso risale."

Il telefono sulla scrivania squilla. L'uomo alza il ricevitore: Sorride ancora ascoltando la voce dall'altro capo del telefono: "Si signore, è esattamente quello che ci aspettavamo...no, nessun problema...certo, non si preoccupi...grazie signore....A presto".
L'uomo seduto abbassa il ricevitore e si chiede quanta gente al mondo creda a quelle stupidagini e quanti imbecilli camminino per le strade di quella città e di tutte le città per cui si muore. Ma anche questa volta ce l'ha fatta. Nessun Hiram, nessuna promessa, nessun potere per i piccoli uomini persi dietro le guerre e i soldi ed il potere. Va tutto bene.

Thursday, September 20, 2012

Freaks

Torno da un convegno. Un convegno scientifico. Un convegno scientifico pieno di universitari. Baroni e vassalli e cani sciolti. Argomento principale: prossimi concorsi. Cattedre e potere. Tutto normale. L'anormale sono io (Wow! Novità incredibile!). Sono anormale perchè, anche se non mi aspettavo di andare a parlare ad un convegno scientifico come quelli che mi capita di frequentare all'estero (raramente ultimamente), quello che ho visto e sentito ha confermato quello che penso da anni e ha spiegato quel malessere che dopo anni continuo a provare frequentando alcuni ambienti.  Dopo la cena sociale, sontuosa e seria come si conviene alla nobiltà dell'occasione, mi sono fermato a parlare con un vecchio amico dei tempi andati e mentre ci raccontavamo aspetti inediti di situazioni conosciutissime, ad intervalli più o meno regolari il mio sguardo vagava oltre le sue spalle, a guardare i vari capannelli che si andavano formando e sciogliendo come in una danza di gruppo apparentemente scoordinata. Vedevo i vecchi potenti e i nuovi potenti che per rispetto salutavano come figli amorosi i vecchi capi che avevano detronizzato, i cani mendicanti che vagavano in cerca di un sorriso o di una pacca sulle spalle, le nuove o i nuovi rampanti che scaldavano tra le mani bicchieri vuoti di prosecco spostando il peso da un piede all'altro. Ho visto sguardi d'odio e mute proteste, abiti costosi come tredicesime di 10 metalmeccanici e cravatte napoletane, scollature eccessive su seni avvizziti e rughe amare su volti giovani. Mogli, mariti, amanti, varie ed eventuali. Poi, come se qualcuno avesse accesso improvvisamente un enorme neon in una stanza semibuia li ho visti. Ho visto i freaks, i mostri, i mutanti, gli obbrobri, gli errori della natura da esibire in un circo. Ho visito gente allampanata dalla magrezza esagerata, ho visto pelli tirate a creare ghigni vuoti, zoppie evidenti, malattie metaboliche in esplosione, grasso accumulato per cene di lavoro, risate paranoiche, tic e e dentiere e piccole malformazioni che diventavano ferite di guerra, gobbe e strabismi di Venere (scitta sul muro di un Liceo Classico: "Venere era una puttana") e una vertigine mi ha preso all'improvviso quando ho osservato ciò in cui tutto questo putridume galleggiava. Ho visto il vuoto. Tutti quei freaks esistevano solo li, solo in quel salone, come ombre in rilievo su uno sfondo vuoto. Gente che decide la vita altrui, gente che organizza, manipla, minaccia, promuove, blandisce, ma che non esiste fuori da quel brodo di parole. Freaks senza una propria vita, freaks potenti, gente che non inviteresti mai a prendere una pizza o un aperitivo, gente con cui non vorresti mai condividere un viaggio in auto, gente che normalmente eviteresti. Ho tirato per un gomito il mio amico e siamo usciti all'aria aperta.Aveva smesso di piovere da pochissimo, nell'aria l'odore di terra bagnata. "Che c'è?" mi ha chiesto.
"Niente, sono un pò stufo di stare con quella gente lì."Gli ho risposto.
"Allora non vuoi fare carriera!"
"No, forse no...in fondo a chi devo rendere conto? Non voglio diventare come loro..."
" E se lo fossi già? Se lo fossimo già?"
Ci siamo guardati dritti negli occhi.
Ho rivisto molte cose della mia vita e della sua in pochi attimi. La risposta è no. Non siamo come quelli. Entrambia abbiamo vite, più o meno complesse, ma credo che alla fine ringrazieremo qualcuno per averci dato l'opportunità di vivere. Siamo vivi non solo perchè respiriamo.
Uan musica mi è risuonata in testa. Lucio Dalla. Piazza grande. Santi che pagano per me non ce n'è...
"No ,  non siamo come loro, lo sai pirla...e se diventi come loro ti abbatto!"
Una risatina amara e abbiamo ricominciato a parlare di altro. Ho sbirciato un attimo in direzione del brusio della sala. Ho pensato alla mia bici che mi aspettava in un cortile.
"Speriamo non mi rubino il fanale"
Qualcuno dentro di me ha sorriso .

Monday, September 10, 2012

Quanto valgo...

Ho cercato il mio sito in rete e come sempre eccoti la sorpresa: c'è qualcuno che ha valutato il mio sito. Prezzo:137 $. E' poco? E' tanto? E chi se ne frega! Hanno dato un valore in base al traffico e alle visite che i miei amici ogni tanto mi fanno. Quindi, se domani mettessi all'asta il mio piccolo blog la base d'asta sarebbe 137$...ma vuoi mettere il valore che ha per me questo spazio arancione di assoluta libertà che mi permette di scrivere e far leggere quello che scrivo? E il calore delle persone che lo visitano quanto vale? Sono passati due anni da quando ho aperto Pietraluce, il mio rifugio ed è una delle cose migliori che abbia fatto negli ultimi anni, se vale 100 o 1000 $ non importa. E' mio, come un paio di mutande o lo spazzolino, è mio come i capelli che mi crescono in testa o la barba che falcio ogni due giorni, è mio come le parole che scrivo ora e quindi non lo vendo. Certo se qualcuno mi offrisse un milione di euro...:)
Ciao
B

Wednesday, August 29, 2012

L'uomo calvo (attento a ciò che desideri)

Oxana Rishnyak
Seguii al piccolo trotto la segretaria attarverso un labirinto di piccoli uffici  sino ad uno stanzone molto illuminato al primo piano. Quando entrammo, una ventina di occhi si girarono verso di noi. "Dottor Lavagni...ecco il suo nuovo adepto...appena assunto direttamente dal Direttore generale!!!". L'uomo ,a cui la segretaria si era rivolto, era l'unico seduto nella sala.  Aggrottò la fronte guardandomi come si guarderebbe uno sceso da una astronave in mezzo all'autostrada e cerco di chiedere qualcosa alla dolce signora che mi aveva accompagnato. Non ci riusci. "Lei" disse la segretaria girandosi verso di me con il busto strizzato in un golfino di lana "non dimentichi di passare dal mio ufficio domani mattina alle otto...se vorrà restare ancora con noi, si intende..."
Il suo sorriso alla nicotina mi provocò una gastrite istantanea che servìa risvegliarmi dallo stupore in cui galleggiavo da un quarto d'ora. Mi risvegliai appena in tempo per accorgermi di essere circondato da giovani della mia età che mi osservavano con un misto di odio e curiosità. A rompere il ghiaccio con cordialità fu il Dottor Lavagni, l'uomo seduto: " E tu chi cazzo saresti?"
Io non capivo nulla di quanto stesse accadendo, sentivo soltanto fortissimo il desiderio di sparire da quell'area geografica e di essere teletrasportato nella remota e ospitale regione del deserto dei Gobi. Il teletrasporto non funzionò e mi ritrovai con la mia mano destra sudata che si slanciava oltre il tavolo ampio e ingombro di carte del Dottor Lavagni. "Buongiorno, mi chiamo Bartel..."
La mia mano resto sola sospesa nell'infinito spazio di quella scrivania.
Con il tempo capii  tre cose riguardo quell'uomo in questo ordine: perchè non sia alzò a stringermi la mano, perchè mi accolse cosi simpaticamente e perchè era sempre incazzato,.
Il dottor Lavagni era stato vittima di un incidente stradale un paio di anni prima. Alla guida dell'auto c'era la sua amante di allora, una giovane segretaria dell'ufficio fondi con cui stava litigando. Il litigio terminò fuori strada. Lei si ferì seriamente, lui ci rimise la spina dorsale e ci guadagnò una sedia a rotelle e un leggero sputtanamento. Io avevo appena preso il posto destinato al nipote preferito della legittima consorte. Si chiama merce di scambio.  Io non ero previsto. A posteriori giustificai la magnifica accoglienza. Per quanto riguardava i miei nuovi colleghi, prima pensarono che io fossi il parente prescelto di cui tutti mormoravano, e mi odiarono. Poi si  accorsero dalle parole del capo che ero altro, e mi odiarono di più.
Anche il Dottor Lavagni cominciò ad odiarmi. Lo capìì quando aggirò la scrivania con un agile movimento della sua sedia a rotelle cromata e mi si parò davanti. Mi fissò dal basso in alto con occhi furiosi parzialmente coperti dalle sopracciglia chiare, ma cespugliose e mi disse alcune parole che non scorderò mai: "Il tuo lavoro qui è tutto un errore...tu sei un errore!" e usci dalla stanza. Diretto alla direzione, immaginai. Qualcuno dentro di me sorrise al piccolo calambour, mentre restavo fermo nell'aria cristallizzata di quella stanza tra quel piccolo gruppo di ragazzi miei coetanei. Poi qualcuno si mosse per tornare alla propria scrivania, il gruppo si sciolse improvvisamente. Restai solo in piedi. Poi un' anima gentile mi indicò senza parlare una piccola scrivania sgombra all'estrema periferia dello stanzone. Io la raggiunsi, poggiai la mia borsa vuota e mi sedetti. Guardai il muro di fronte, bianco e spoglio e sorrisi senza che nessuno mi vedesse. Era tutto completamente pazzesco, sicuramente c'era un errore e tra pochi minuti sarebbero arrivati per scusarsi brevemente e mettermi velocemente alla porta. Era stata una mattinata interessante. Averi avuto qualcosa da raccontare la sera. Mi appoggiai allo schienale e cominciai ad aspettare con pazienza e rassegnazione. Ero nato perdente, non avevo diritto alla fortuna, solo agli errori crudeli. Ne apporfittai per riposare e rilassarmi, e mi addormentai.

Tuesday, August 7, 2012

L'uomo calvo (your wish is my command)

Ci si abitua. Ci si abitua a tutto, o quasi. Io mi abituai a Dave e Bud. Parlavamo, ridevamo, io scrivevo, loro raccontavano. Gli parlai di Hemingway e di Proust, loro mi fecero capire la differenza tra una Glock e una Beretta. In quel periodo avevo la serena consapevolezza di essere pazzo, pazzo per necessità, pazzo per non impazzire. Non trovavo lavoro, mio padre moriva e si trascinava con se mia madre, tutto era arrivato ad un punto morto e la solita diga innalazata con anni di sacrificio crollava e i miei occhi si ritrovarono inondati di acqua amara una sera solitaria come questa. La mano enorme di Bud si poggiòdelicatamente sulla mia spalla. Non abbastanza delicatamente da non farmi spaventare.
Non mi chiese nulla, ma capivo dai suoi occhi che capiva. Sentii la voce di Dave alle mie spalle: "Amico, possiamo fare qualcosa per te?"
"Certo!" risposi mentre una lacrima mi scivolava in bocca. "Trovatemi un sacco di soldi per aiutare i miei e un lavoro strapagato!".
Dave mi sorrise e si sedette sul divano. Bud mi diede un colpetto sulla spalla che mi fece male e andò a sedersi accanto a Dave. Passarono diversi minuti nel silenzio, mi calmai, andai in bagno a sciaquarmi il viso e quando tornai erano andati. Sistemai il divano letto per la notte e piansi al buio.
Il mattino seguente mi aspettavano in banca per un colloquio per uno stage non retribuito. Ci andai con la mia cravatta migliore, una delle due che possedevo. Un usciere in divisa mi guardò schifato. Lo ricambiai. Seguii le indicazioni che mi aveva biascicato e mi ritrovai davanti alla porta di un vice-direttore aggiunto. Bussai. Da una porta accanto spuntò la testa cotonata di una segretaria di mezz'età e mezza altezza. "Il dottore non è ancora arrivato, ha telefonato che arriverà tra un paio d'ore...lei era qui per lo stage, vero?"
Non feci in tempo a rispondere. Una porta alle mie spalle si aprì all'improvviso e voltandomi mi ritrovai faccia a faccia con un uomo alto e dai capelli completamente grigi come il doppiopetto che indossava. L'uomo si bloccò, probabilmente spaventato dal fatto di trovarsi davanti un ostacolo improvviso. Lo guardai negli occhi e capii che non ero io il motivo del suo spavento. Era sudato e i capelli erano leggermente scarmigliati. Sudava. Sembrava stesse fuggendo da qualcosa o qualcuno. "L...lei..chi è?" mi fece.
La segretaria rispose per me: "E' un giovane che il Dott.Capizzi ha convocato per un colloq..."
"Va bene...va bene...non importa!" La interruppe stizzito.
"Venga...venga dentro!!!"
L'uomo dal doppiopetto grigio mi spinse nel suo ufficio e chiuse la porta. Vi si appoggio e tirò fuori un fazzoletto con cui si tamponò la fronte. Era un signore distinto, sui sessant'anni, ma dritto come un fuso. Mi indicò un poltrona in pelle davanti ad una scrivania in ciliegio che odorava di cera. Mi sedetti e lo osservai guardarsi con circospezione intorno, come se si aspettasse che da un momento all'altro potesse crollargli il soffitto in testa. Si sedette anche lui e mi accorsi che respirava con difficoltà. Appoggiò le mani con le dita distese sul piano della scrivania.
"Senta Lei...come...come si chiama?"
Gli risposi. Risposi anche ad altre domande banali, mentre nasceva in me il sospetto di essere vittima di qualche laida candid camera. Uscii da quella stanza dopo 20 minuti con un foglio ripiegato tra le mani che consegnai alla segretaria di mezz'età che quasi me lo strappò dalle mani. Lo aprì e lo lesse. Lo esse due volte muovendo le labbra secche cariche di rossetto. Mi guardò dritto in faccia abbassando un pò gli occhiali.
"Bene, dottore...benvenuto allora." Mi disse secca porgendomi la mano magra e carica di bracciali. Ero appena stato assunto.

Friday, August 3, 2012

L'uomo calvo (perchè ho smesso di scrivere)

Li guardavo, certo di trovarmi in un sogno.
 "Magari vi ho sognato... vi sto sognando perchè vi ho descritti...meglio...vi ho creato io! I due si guardarono in silenzio. Le mie parole li avevano colpiti, mi stavo dichiarando come il loro Creatore e quesi due delinquenti da strapazzo non credevano alle mie parole! Erano chiramente a disagio. Dave si mantenne fermo agganciandosi con le mani al tavolo mentre Bud aveva messo a dura prova la resistenza dello schienale della sedia e la sua carne era fuoriuscita tra le listelle di legno.
"Ma visto che ci siamo, parlatemi di voi...ditemi chi siete esattamente, cosa fate per vivere...così per fare due chiacchiere..."
I miei due ospiti si guardarono ancora e Dave fece un segno di assenso con la testa a Bud che attese alcuni secondi prima di parlare. Raccolse le idee, rialzò la testa e cominciò un lento rosario con la sua voce profonda mentre si strappava della pelle morta dall'orlo delle unghia cortissime.
"Mi chiamo Bud Hessinger e sono nato per fare del male come diceva la mia povera mamma,  perché ho le mani enormi ed il cervello piccolo, troppo piccolo per fare qualcosa di buono come diceva la mamma, eppure tutti mi chiamano Bud il poeta perché un pomeriggio, qualche anno fa, ero completamente fatto di acido, ho scritto una poesia su un muro della 49ma di fronte a due poliziotti che hanno riso per una settimana per il fatto che ballavo mentre scrivevo con lo spray e sbagliavo le parole, ma quella volta sono stato felice perché ho sentito qualcosa dentro che voleva uscire e non mi importava delle risate dei poliziotti mentre mi sbattevano sul cofano dell'auto per ammanettarmi senza riuscirci perchè le manette erano piccole per me e hanno usato delle strisce di plastica poi o di quello che avrebbe detto mia madre, volevo solo scrivere queste parole:

Ci sono sacchi di dolore caricati su spalle piegate
Ci sono rubinetti di fiele aperti notte e giorno
Ci sono cose che non sò spiegare, ma che uccidono me e te

Non ho più provato una sensazione come quella, non sono più riuscito a trovare un acido così buono, ma da allora tutti mi chiamano Bud il poeta.  Quella scritta é rimasta su quel muro per mesi e io andavo a guardarla quando nessuno era in giro, per capire quello che avevo scritto. Qualche coglione ha detto che l'avevo copiata, ma non era vero ed avevo scritto fiele perché avevo sentito che era qualcosa di molto amaro e disgustoso. Poi quella scritta l'hanno cancellata, ma io me la ricordo ancora ed uno di questi giorni giuro che gliela riscrivo." Finì di bere e sorrise a tutti e due e mi sembrò di vedere un'ombra di rossore sul suo viso, ma sarà stato il vino. Era finalmente rilassato, quasi contento e bevve un altro sorso .
Pensai alle lezioni all'Università sulla capacità di alcune droghe di espandere la coscienza, di farti viaggiare in altre dimensioni della realtà che altro non sono che parti della nostra mente abbandonate come i vecchi magazzini del porto. Vidi per un attimo Bud vestito come uno sciamano indiano intorno ad un fuoco lontano.  Ma Bud Hessinger non era un  nobile atzeco, non era un vecchio sciamano, non era nulla.
"E tu biondo, chi sei?"
Dave Smear era stato a giocherellare con una penna poggiata sul tavolo, apparentemente disinteressato al racconto di Bud. Cominciò a parlare senza distogliere lo sguardo dalla penna che faceva roteare lentamente.
"Mi chiamo Dave, Dave Jr, mio padre si chiamava Dave, Dave Senior, si chiamava perchè un giorno l'ho ucciso, l'ho buttato di sotto dalla scala antincendio. L'ho portato io li, era ubriaco come sempre, ma stavolta troppo per capire. L'ho portato lì e l'ho appoggiato alla ringhiera. Poi l'ho guardato in faccia, e l'ho spinto di sotto e l'ho visto cadere, l'ho guardato mentre cadeva con la sua faccia stupida e i baffi lunghi da messicano e le mani che tentavano di aggrapparsi all'aria. Non ha gridato, troppo ubriaco. C'ha messo una vita a cadere. poi ho sentito un colpo secco come un bastone che si spezzava sulla schiena. Stavolta è stata la sua schiena a spezzarsi. E' morto con gli occhi aperti."
Dave face una pausa e sollevo il capo a guardarmi negli occhi, quasi a controllare l'effetto delle sue parole.
Mi chiedevo cosa dire, se credere o meno a quella voce leggera che aveva confessato l'omicidio di suo padre. Ma più di tutto mi meravigliava il fatto che stessi pensando tutto ciò. in fondo ero convinto di sognare e allora che imporatnza poteva avere cosa chiedere o come chiedere. All'improvviso sentì la mia voce porre la seguente domanda : "Cosa si prova ad uccidere?"
"Campione mondiale di psicologia applicata" pensai.
"Mah! Non lo so, quella volta provai un senso di liberazione, come se avessi schiacciato un insetto fastidioso, poi sentì un vuoto. Quando uccisi un portoricano qualche giorno dopo con la pistola che avevo comprato da Jimmy Jamaica, ho avuto paura, paura da vomitare,  paura di essere preso, ma poi  ho visto che nessuno mi ha seguito e che le pallottole non hanno la tua firma ed il tuo indirizzo sopra e allora sono stato solo attento solo attento a non farmi beccare dal piombo degli altri perché brucia, brucia molto e cosi ho trovato il modo di fare soldi con il mio amico Bud".
Dave aveva parlato senza distogliere i suoi occhi dai miei.
Non provavo paura, ma improvvisamente sentii sulle spalle una terribile tristezza, un senso di inutile desolazione, come se tutta la mia energia fosse stata risucchiata in un vortice di giorni inutili come cocci di bottiglia sparsi per strada, inutili e pericolosi, buoni solo per la spazzatura. Appoggiai le braccia al tavolo e vi nascosi la testa. mi addormentai, o meglio pensai di addormentarmi. Riaprii gli occhi svegliato dallo sferragliare di un tram. Il mio orologio mi informò che erano le cinque e ventisette minuti. Mi guardai intorno, ma nella penombra non vidi nessuno. Con uno sforzo sovraumano riuscii ad alzarmi dal tavolo per lasciarmi cadere immediatamente sul divano lì accanto. Ero a pezzi, dentro e fuori. Mi riaddormentai con le lacrime agli occhi senza un motivo preciso e mi risvegliai dopo tre ore. Era tempo di tornare a caccia di lavoro.
La giornata scivolò via senza nessun risultato, tornai a casa presto, nel primo pomeriggio, e ricominciai a scrivere il mio racconto senza pranzare. Il frigo era vuoto e gli avanzi erano finiti. Dopo le prime righe li sentii. Alzai lo sguardo e Dave e Bud erano lì davanti, come la notte precedente. Quando li vidi mi guardai rapidamente intorno per cercare qualche indizio del mio stato onirico, ma non ne trovai. Non stavo sognando. Bud e Dave erano in piena luce di fronte a me. Li salutai e riprendemmo a chiacchierare. Passarono ore in cui i due mi raccontarono di tutto, come fantasmi invitati  da una medium a raccontare le loro pene. Ogni tanto prendevo discretamente appunti. Continuammo sino a che non mi addormentai ancora.

Wednesday, August 1, 2012

Io sono tarantino

Io sono tarantino. Non lo dico alla Kennedy, per empatia o per opportunità politica.  Io sono proprio nato lì, vissuto lì per 19 anni, ci torno a Natale e qualche giorno in estate perchè il mare è splendido e mia madre, mia sorella e mio fratello vivono, lavorano e crescono i propri figli laggiù. Mio padre lavorava nell'Arsenale della Marina Militare; tutti i miei zii, molti miei cugini, molti amici d'infanzia di mio padre, molti loro figli, lavoravano o lavorano all'ILVA, che per molti di noi è ancora l'Italsider. Io sono nato e cresciuto nel rione Solito-Corvisea, zona est della città, diametralmente opposto rispetto al quartiere Tamburi, quello povero e degli operai, quello che si affaccia sul porto, stretto alle spalle dalle colline artificiali, pieno un tempo di fabbrichette artigianali intorno alla stazione ferroviaria. Mia moglie è nata lì. Ci è vissuta sino ai 5 anni, poi anche lei si è spostata a est, lontano dalla fabbrica, quella che ha fatto diventare ricchi molti piccoli imprenditori, qualche mafiosetto, quella che ha reso moderna la mia città. Basta fare gli emigranti o andare in marina (che in fondo è la stessa cosa...) vieni a lavorare all'Italsider!!! Negli anni settanta e per buona parte degli anni ottanta lavorare all'Italsider era una vera fortuna, potevi facilmente comprare casa, guadagnavi molto più degli altri lavoratori, avevi un quartiere moderno a disposizione per crescere i tuoi figli nel verde (PAOLO IV, in onore del Papa in visita), il futuro era radioso, finalmente, vacca ladra della fortuna, finalmente ti sei fermata in riva allo Ionio! Tutti erano orgogliosi della lava creata negli altiforni e dell'acciaio migliore del mondo! Per trent'anni nella mia città ci sono state solo acciaio e  chiacchiere. Molte chiacchiere, come adesso.
Poi sono cominciati i guai, la vendita o meglio la svendita dell'Italsider, è finita la pacchia e le rughe della sposa d'acciaio sono diventate sempre più evidenti, nello stillicidio di incidenti e morti (che ci sono sempre stati, ma nessuno se ne accorgeva), licenziamenti, mobbing, cassa integrazione etc etc. Intorno però non cresceva nient'altro solo chiacchiere ipnotiche e soporifere. Chiacchiere e occhi chiusi. Anche io ho sempre visto la polvere rossa sulle strade, anche io sapevo della diossina e dei metalli pesanti, ma ho chiuso gli occhi. Vivevo ormai da un'altra parte. Pensavo" Effetti collaterali, non ci si può fare nulla. E se la fabbrica chiude questi dove vanno a lavorare? Come vivono?"
 E tutti ora si battono il petto, anche quelli che non hanno mosso un dito e hanno fatto solo chiacchiere (volevo scrivere "anche quelli che non hanno fatto un cazzo e sono stati a guardare", poi ci ho ripensato).
Adesso chi paga? I Riva e lo Stato. Bisogna cercare di mettere a posto quello che si può, ma noi tarantini dove eravamo? Sotto ricatto forse, o muori prima o poi o lavori adesso, ma non è solo questo. Voglio essere onesto sino in fondo.
I tarantini e Taranto hanno molti difetti, troppi, e io sono tarantino. I tarantini sono stati degli stupidi caproni.  Loro e i loro sindacati. Bisognava capire che era ora di fare altro e meglio, bisognava staccarsi pian piano da quella mammella avvelenata. Lo sapevano tutti, ma si è preferito chiudere gli occhi e respirare a pieni polmoni. Non c'era alternativa e quelli che hanno governato la mia città se ne sono bellamente fottuti di costruire un futuro diverso o di cambiare qualcosa, di difendere la mia gente, anzi alleati con i mafiosi locali hanno conservato lo status quo, consegnando i nostri figli nelle mani di chi , come imprenditore, conta i soldi non le anime. Il ministro dell'Ambiente mi sembra persona seria, ma Taranto e il sud in genere hanno bisogno d'altro. Ha bisogna dei meridionali. Guardando uno dei vari servizi da Taranto nei giorni scorsi ho pianto. Tranquilli, non mi ha visto nessuno. Erano lacrime fredde, già viste, lacrime abituali di chi vede la propria terra e i suoi fratelli attraversare l'ennessima sofferenza. Io sto con gli operai, io sto con i magistrati, io sto con gli ambientalisti, io sto con i tarantini. Ma quando smetteremo di far scrivere la nostra vita dagli altri e ringraziare per ogni biscotto per cani che ci lanciano? La fabbrica deve restare aperta ed essere resa meno inquinante, ma bisogna pensare ed agire per un futuro prossimo. Ci sono altre fabbriche li intorno, c'è una raffineria. C'è tutto un futuro da inventare.
Mia madre vive a Talsano ora, ancora più ad est. Quando le telefono capita che mi dica "ho pulito i balconi, sai...è arrivato il fumo dell'Italsider sino qui..."
Buona fortuna Taranto.

Wednesday, July 25, 2012

L'uomo calvo (ritorno alla normalità...)

Sono tornato a casa di domenica sera. La mia città è più brutta del solito sotto la pioggia. Io mi sento più giù del solito. Entro nel mio appartamento e il suo buio tiepido mi sussurra le solite paroline dolci: "Bentornato padrone, fatto buon viaggio? Bentornato alla tua solitudine. A proposito, nessuno ti ha cercato."
Accendo la tivu e cerco in frigo qualcosa di ancora mangiabile. Pizza surgelata. Apparecchio per uno, tovaglietta, calice di vino, bicchiere per acqua, posate e piatto veri. Niente plastica. Bisogna avere rispetto per se stessi, bisogna amarsi. Spalanco la bocca del microonde e ci infilo la mia "margherita ricca come da tradizione".  Nel balconcino della cucina vive rigoglioso il mio piccolo orto di piante aromatiche, protette da mini-serra. "La pizza senza basilico è come una donna senza minne...". Frase tipica di Silver la puzza, Salvatore la puzza da Sciacca, un vero siciliano da commedia all'italiana, con gli occhi chiari e i capelli ricci, allergico all'acqua, ma sciupafemmine, amico della mia vecchia compagnia del liceo. La stessa di Joshua, l'ebreo, ora Joshua il calvo, anche lui coinvolto nel cammino di liberazione dalla scrittura. Tra due giorni mi ricapiterà di vederlo. Chissà. Non so se sperare o temere un altro incontro. Dovrò andarci comunque alla riunione. Ne ho bisogno. Non devo scrivere, non devo, anche se la tentazione è forte, non devo ricominciare, perchè so cosa accadrà dopo. Ricomincerà quello che era cominciato tanti anni fa e che mi aveva portato quasi alla follia. E non voglio più che accada. Ora c'è Julia, ora ho una vita.
Tanti anni fa, dopo l'università, vivevo in una casa molto più piccola di questa, un monolocale con bagno cieco e una finestra che si chiudeva con difficoltà, un divano letto mezzo sfondato e un tavolo di fortuna messo insieme con due cavalletti e un piano di scompensato spesso. Cucina, soggiorno, salotto, vista sul  palazzo di fronte. Cosa può volere di più un brillante laureato alla ricerca di primo impiego che si nasconde molto bene?  Soldi pochi, pochissimi allora e sogni grandi, come quello di diventare l'Hemingway italiano. Scrivevo racconti che nessuno leggeva, tranne gli amici e la ragazza di turno, vagavo tra un colloquio di lavoro e l'altro, mi svegliavo pieno di ottimismo ed andavo a dormire triste. L'aspetto peggiore e che mi stavo abituando a quella vita. e l'altro. Una sera, dopo una cena pantagruelica con gli avanzi dei due ultimi giorni, avevo voluto riordinare le idee per l'ultimo racconto su una bella risma di carta bianca che avevo rubato la settimana prima dall'ufficio della ditta Giangiacomo Sposini e Figli dal 1954 dove ero stato per un colloquio di lavoro. Era lì, in mezzo a tante altre e si vedeva che non aveva voglia di essere usata per fotocopiare fatture, protesti e conti. Non aspettava altro che essere usata per un sogno.  Io la accontentai: mentre la segretaria era in bagno afferrai la risma e la feci sparire tra le fauci della mia borsa vuota che portavo solo per darmi importanza. Tutto era andato per il meglio ed uscii soddisfatto da quell'ufficio anche se non avevo trovato lavoro.  Avevo cibo per la mia fantasia, avevo inchiostro, avevo idee e mi sentivo un pò felice. Mi ero rinchiuso nella bolla di luce della lampada del mio tavolo da lavoro ed avevo viaggiato nel buio per buona parte della notte.  Avevo attraversato un lago di silenzio interrotto solo da voci lontane di vicini come piccole luci che ne disegnavano le sponde.  Fuori un tram fuori sferragliava, i vetri della mia finestra tremavano spaventati. Tutti i miei pensieri erano diventati inchiostro, adesso l'inchiostro era finito. Tentai di ricaricarmi con un bicchiere di vino in busta, ma il suo gusto amarognolo in fondo alle fauci diede il segnale della fine dela navigazione. "Tutti in branda".
Non finii di alzarmi dal tavolo. C'era qualcuno nella stanza.  Non li vidi, avvertii la loro presenza. Non sapevo cosa fare: fuggire, urlare, parlare. Qualcuno dal fondo della stanza si muoveva verso di me entrando pian piano nelle zone periferiche della bolla di luce. Due paia di gambe, scarpe pesanti.  Due sagome apparvero ai lati del tavolo. Guardai prima l'uno e poi l'altro, avrei voluto dire qualcosa.  Invece rimasi muto, poi li riconobbi rimproverandomi di non averlo fatto  prima. I due protagosnisti dei miei ultimi racconti su una banda di spacciatori di Seattle erano nella mia stanza, ai lati del tavolo a notte fonda. Bud Hassinger e Dave Smear mi fissavano. Era chiaro, stavo sognando.  Mi rilassai mentre osservavo Dave girare i fogli che avevo riempito per leggerli.
"Non mi aspettavo una vostra visita" dissi massaggiandomi gli occhi e pensando che fosse strano provare sonno durante un sogno. Sbadigliai. Loro non risposero, Bud si guardava intorno stupito di essere lì. Hassinger era obeso, non molto alto, impacciato nei movimenti, con le braccia lontane dal tronco come in certi pupazzi per bambini , colorati e rotondi.  Mi colpirono le sue mani enormi, lunghe quanto il suo avambraccio e più larghe della sua faccia. Io non le avevo immaginate così. Questo era un segno inequivocabile che i personaggi di un racconto hanno bisogno solo di essere abbozzati, poi cominciano ad evolversi per conto proprio, seguendo sentieri misteriosi ed imprevedibili.  Smear invece era alto e magro, triste. Lunghi capelli biondi e sporchi gli coprivano in parte il viso mentre sembrava leggere ciò che avevo scritto.  Sapeva leggere o guardava i segni senza senso?  Era stranamente ben rasato. Sulla maglietta rossa una scritta nera "Rage against the machine", il nome di un gruppo hard-rock-punk e qualche cosa d'altro.  Non ricordavo più, era passato tanto tempo da quando ascoltavo la musica a tutto volume per non sentire altro.  Dalla cintura che a fatica teneva su un paio di pantaloni troppo larghi, partiva una catena d'orologio che si indovinava in un rigonfiamento della tasca destra.  Le  sue scapole erano due pinne di squalo che spuntavano aguzze da un  giubbotto militare. Avevo la triste impressione che quella schiena avesse familiarità con le cinghiate alcoliche di un padre fortunatamente poco presente.  "Sedetevi, prego...." dissi non essendo sicuro che mi potessero capire.  Li avevo immaginati americani, americani della West Coast, ma quello era un sogno, quindi mi avrebbero capito sicuramente.  Bud non era sicuro di aver capito bene, ma seguì ciò che fece Dave.  Prese una sedia bassa ed una volta seduto la sua faccia rotonda arrivava all'altezza del piano del tavolo. Dove prese uno sgabello come il mio.  Li guardai.  Ero in presenza di due disperati Don Chischiotte  e Sanco Panza, che mi guardavano a loro volta muti, aspettando una rivelazione dal loro creatore.  Sorrisi "Volete da bere?" Si guardarono sorpresi ed io cominciai a versare il vino in alcuni bicchieri di plastica che avevo preso con gesto felino dallo scaffale alle mie spalle.  Alzai il mio bicchiere e contento come non lo ero da tempo augurai "Prosit!".  Loro mi sorrisero senza capire ed alzarono i calici postindustriali.  Bevemmo insieme. "Dite un pò, giovanotti, che ci fate qui?" 
Li chiamai giovanotti perché sembravano molto più giovani di me. Bud non capì subito, aggrottò la fronte e stavolta Dave parlo con una voce sottile e lontana, immatura. "Non sappiamo....forse ci hai chiamato tu... non lo so....".

Thursday, July 19, 2012

Scusate, non lo farò più...

Scusate tanto, amici. E' l'ultima volta, giuro! Ma ditemi un pò voi, quante pagine dovrebbe scrivere uno di noi per descrivere l'aspettativa di felicità di Snoopy? Non aspettiamo anche noi mendicanti (ognuno di noi), lì accucciati davanti alla vita,  una manciata di felicità? Senza neanche sapere se sarà la felicità che sogniamo...
Buona giornata
B

Wednesday, July 18, 2012

Chi dei due?

Oggi mi sento esattamente cosi! "Come Snoopy o come Woodstock?" chiederete voi. Il bello è questo: non lo so!  Ah, la poesia dei Peanuts!!!

Thursday, July 5, 2012

L'uomo calvo (cene e cene e cene)

La mano me la lasciò lei. La cameriera anziana si piantò alle sue spalle dicendole qualcosa che non capii, ma il tono spiegò tutto. Il locale andava chiuso. Lei mi sorrise quasi scusandosi dell'intrusione, voltò la testa e sentii la sua voce un pò stizzita :"Oui, oui, tout de suite...".
Mi sorrise ancora, mi lasciò la mano e ci alzammo da tavola. "Oggi offre la casa...a domani!". Non era un invito, era un ordine. Sparì con il suo calice nella cucina del locale. Osservai i suoi fianchi per un attimo e provai una tremenda fitta di desiderio nel basso ventre. Mi voltai e incrociai lo sguardo della cameriera. Se avesse guardato un cane rognoso i suoi occhi avrebbero avuto un'esperssione più dolce. Da bravo simpaticone alzai il calice nella sua direzione per un brindisi muto, svuotai il bicchiere e solo il pensiero di non sporcare la mia giacca mi impedì di asciugarmi le labbra con la manica. Posai il bicchiere e uscii salutando in italiano. Fuori laserata di settembre era dolcissima, il traffico quasi inesistente. Mi chiesi se aspettarla o meno li fuori. "No, oggi no. Aspetta".  Mi sorrisi pensando alla saggezza che una vita difficile come quella che avevao vissuto sino a pochi anni prima può infondere. Mi allontanai a passo lento, mani nelle tasche, verso il mio hotel. Quello che accaddè poi è facile da intuire. Julia era, ed è, una donna corazzata. Ci volle tempo, fiori e una presenza costante e silenziosa. Le spiega il mio lavoro, ci raccontammo molte verità e qualche bugia, qualche omissione, ci tenemmo per mano molte sere. Il locale era suo, eredità di un padre simpatico e presente, e di una madre alcolizzata. Questo spiegava molto, anche il suo impegno nel continuare la tradizione di famiglia. Poi una sera mi invitò da lei, in un piccolo appartamento nello stesso stabile del locale, secondo piano, grande vetrata liberty, tanti libri, un grande divano bianco, e facemmo l'amore come se io avessi sempre fatto parte della sua vita e lei dela mia. Sono passati quasi tre anni, non uso casa sua quando sono a Parigi, prendo sempre una camera nel solito albergo. Viviamo cosi, legati l'uno agli occhi dell'altra, con le mani incollate appena possibile. Il mese prossimo verrà da me in Italia, dice che mi ha dato abbastanza tempo per nascondere mia moglie e i miei quattro figli e mi sorride.Non abbiamo mai parlato di avere figli insieme, o di avere una casa in comune. Lei ha il suo bistrot, io non ho niente se non lei e questa segreta angoscia di non riuscire più a scrivere una riga di un racconto o di una poesia. Ho smesso anche di leggere. Ho pensato ad una malattia, ad un distturbo neurologico, ad un tumore cerebrale. Appena possibile mi farò visitare. ma ho l'impressione di aver perso l'anima, ma sono sempre più sereno, forse è il prezzo della felicità. Adesso mi accontento di mangiare queste ostriche grasse, bere questo buon vino e  sorridere alla vecchia cameriera che mi odia.

Wednesday, July 4, 2012

L'uomo calvo (ho saltato un incontro)

Ho saltato l'incontro del giovedì. Ero a Parigi, per lavoro. Come ogni mese, da tre anni. Non mi è mancato. Julia mi ha riempito le braccia e non ho pensato a niente altro. Questa storia va avanti da due anni e mezzo. Forse perchè il mio francese fa schifo e il suo italiano è molto sensuale. Forse perchè doveva accadere tutto in questo modo. Comunque una settimana al mese a Parigi  non è male. La banca per cui lavoro ci tiene a far vedere di essere internazionale e manda me a bacchettare i soci francesi per dimostrare che bevono anche sul lavoro per fare delle cazzate cosi enormi. Devono bere per forza, e più bevono, più io me la spasso. Cosi ogni settimana, con la massima gentilezza, una solerte signorina, ogni settimana diversa, ma sempre fornita di tutto ciò che un maschio italiano arrapato, come pensano che io sia, può desiderare,  mi accompagna in un ufficetto al ventesimo piano di un grattacielo parigino e mi fa accomodare su una poltrona che comincio a consumare con il fondo dei miei pantaloni, mi porta una tazza di espresso italiano forte e una pila di documenti da esaminare. Li guardo appena, sorrido e comincia il gioco delle parti: loro mi forniscono dati falsi, io guardo fuori dalla finestra per una mezz'ora, alzo il telefono e chiedo di poter incontrare appena possibile il responsabile dei dati, un signore brizzolato e munito di baffi scurissimi, sempre abbronzato e dal portamento nobile. Non mi meraviglierei di vederlo arrivare con una giacca da caccia con i gomiti ricoperti di pelle, una doppietta sotto il braccio, circondato da una muta di cani ansimanti alla ricerca delle tracce olfattive di una lepre o di un cinghiale o di uno della servitù scappato con l'argenteria. E' un tipico uomo di paglia, messo li come parafulmine del mangiaspaghetti, cioè come  mio parafulmine. Accendo il mio computer portatile e in dieci minuti scrivo una piccola relazione il cui senso profondo si può riassumere con un termine inglese molto usato nel mio ambiente: bullshit. Stronzate. Se metà dei dati forniti fossero veri, la banca per cui io e i francesi lavoriamo potrebbe comprarsi la Cina.
Passerò il resto della settimana a verificare con loro quale sia la fonte dell'errore. Loro giustificheranno il proprio stipendio, io il mio e mostreremo al mondo che lavoriamo per evitare le brutte sorprese della crisi mondiale. Bullshit. Alle cinque uscirò dal grattacielo con tutti gli altri e andrò a bere qualcosa in un bistrot frequentato da tutti gli impiegati della banca e di altre banche vicine, il posto giusto dove crearsi una carriera o rovinarsela. Sorriderò, accetterò le solite battute, mi farò prendere per il culo per il mio accento. Tutto normale, in fondo per loro sono un povero diavolo mandato lì in punizione. Andrò via dopo un'oretta, e dopo tre fermate di metropolitana arriverò nella piazzetta dove si affaccia un ristorantino uscito da una pagina di Simenon, l'Ancienne Normandie, il locale di Julia. Entrerò e la cercherò tra i tavoli sempre affollati. Poi lei sbucherà dalla cucina con le braccia bianche piene di piatti colmi di pesce per i clienti abituali o importanti.  Mi guarderà appena, solo un mezzo sorriso mi farà capire che si è accorta di me. Arriverà Marie, la cameriera anziana, che lavorava già per il padre di Julia. Non mi sorriderà perchè pensa che voglia fregare la sua figlioccia, pensa che io sia un porco italiano. Ha ragione, in parte. Mi farà sedere ad un tavolo vicino al bagno, mi lascerà il menù che io non aprirò. Dopo mezz'ora  arriverà Julia con un piatto fumante, il piatto del giorno, e un calice di vino, quello della riserva speciale. Mangerò e aspetterò, guardandomi intorno, osservando i parigini mentre mangiano e si divertono, proverò a indovinare i loro pensieri, anche quelli che non sanno di avere. Guarderò Julia nella sua danza tra i tavoli, la cassa, i sorrisi dei clienti e i loro sguardi, i suoi sorrisi e sarò geloso come un porco italiano. Un tempo, seduto qui ad aspettare. scrivevo su fogli sparsi, tovaglioli, il retro di un blocchetto di assegni. Ora sono 88 giorni che non scrivo.Così ho conosciuto Julia. Il fascino dello scrittore.  Mangiavo in quel posto da un mese, mi piaceva e mi piaceva Julia, anche se non sapevo nulla di lei. La guardavo, ma senza troppa insistenza. Una serà arrivai tardi, quasi all'ora di chiusura. Lei mi sorrise e mi indicò un tavolo al centro del locale. Poco dopo arrivo con un paio di calici di vino. ne poso uno sul tavolo per me e mi chiese:" Elle est un écrivain ou un journaliste?" 
Ficcai il naso nel bicchiere. Un rosso fruttato.  "Non, je suis un scribe ...". Non era una bugia.
Lei mi guardò un attimo smarrita, poi i suoi occhi si chiusero mentro cominciava a ridere. Alzò il calice in un brindisi silenzioso e bevemmo. "Sei simpatico italiano...". Si sedette al mio tavolo, cominciò a parlare, troppo veloce per il mio francese. Lo capì dai miei occhi, si fermò, sorrise ancora. "Scusa...mi chiamo Julia..."
Mi porse la mano. La strinsi. Era bianca, piccola e inaspettatamente morbida. Non gliela lasciai per il resto della serata.