Rat race

Running

Wednesday, December 15, 2010

Sisifo

Cari bloggers, in questa italia (la i minuscola è voluta) caotica e fredda, solo Bach suonato da mia figlia mi consola. Scrivo pagine faticose che non posto perchè mi sembrano avere un suono falso, forse perchè la disciplina non piace ai dilettanti come me e allora il subconscio si vendica e le parole, le atmosfere non ti sembrano tue. Forse è solo la naturale evoluzione della scrittura o la paura (inconscia) di vedere un tuo desiderio avverarsi. Sembra assurdo avere paura dei propri desideri. "Attento a quello che desideri!" Si a volte tocca stare attenti..., ma non troppo però.
Intanto il mio povero Sisifo lavora correndo da una parte all'altra di questa stupida cittadina, schivando bandiere verdi e alberi di Natale, pellicce sintetiche e persone sintetiche. E solo Bach suonato da mia figlia mi consola.
L'ho già detto (scritto)? Si vede che invecchio!
Cerea
Bartel

Thursday, November 18, 2010

La funambola (I)

“C’ho capito poco Dotto’…l’abbiamo trovata sulla statale 228, vicino al lago di Viverona…no Viverone… il laghetto verso Biella…stava camminando al centro della strada …uno per poco non la investiva e c’ha chiamato …non parla…non aveva i documenti…e camminava scalza…capirai co’ sto freddo….”. Il poliziotto robusto dai capelli a spazzola, chiuso nel suo giubbotto scuro avrà venticinque anni, ed ha fretta di andarsene dal piccolo ospedale. Non gli piace quell’odore di disinfettante e di malattia che si respira nell’aria calda dei corridoi dalle tinte pastello. Stringe con la mano destra la visiera del suo berretto d’ordinanza tenuto sotto il braccio sinistro. Aspetta solo che il medico in camice ed occhiaie gli dica di andarsene, ma quello lo guarda assente e non dice nulla. “Dotto’ …noi la lasciamo in custodia vostra e dei carabinieri che arrivano tra un po’, va bene no? Noi eravamo solo di passaggio…non è pericolosa… deve essere solo fatta…” . 
Il medico del piccolo pronto soccorso sembra risvegliarsi “Si… si agente ci pensiamo noi…ma ha subito violenza?” “Non mi pare, dotto’…non parla comunque, è tranquilla, le dico può darsi drogata, ma non ha lividi sulla faccia o vestiti strappati…ok che non vuol dire, però non sembra…”
“Va bene, va bene agente, grazie ci pensiamo noi “.
Il poliziotto si rimette il berretto e saluta militarmente “Buona giornata allora”
“Buona giornata”.
Il poliziotto si allontana nel corridoio, si ferma un attimo per voltarsi  ma poi riprende la strada per l’uscita.
Il medico sospira e si avvia verso una porticina bianca, bussa ed entra immediatamente. Una giovane in camice, seduta a scrivere su una vecchia  scrivania con il piano in formica verde sobbalza. Vorrebbe dire qualcosa, ma riconosce l’invasore e stringe le labbra.
“Elena …in sala due, una drogata…forse stuprata o solo una prostituta… pensaci tu , per favore…chiama anche la psicologa e poi parla con i carabinieri che arrivano tra un po’, dillo pure a Nunzia …io sto  crollando e vado a casa…mi raccomando, ciao”. La porta si richiude seguita da un sospiro. Elena è l’ultima ruota del carro, l’ultimo medico assegnato al pronto soccorso invece che alla medicina d’urgenza, la prima linea di difesa e il primo parafulmine di tutti, pazienti, infermieri e colleghi. La ragazza minuta si alza dalla scrivania chiudendo una cartellina arancione, si risistema l’elastico che tiene ferma una coda di capelli castani ed esce dalla stanza trascinando i piedi. Si affaccia ad una stanzetta adiacente dove un borbottio aromatico denuncia la presenza di una caffettiera in azione. Accanto alla caffettiera nascosta un donnone biondo è accovacciato a controllare l’altezza della fiamma di un bruciatore a gas vietatissimo dalla direzione. La divisa bianca da infermiera dai larghi pantaloni è tesa sotto la pressione del grasso delle spalle e delle natiche.
“Ciao Nunzia”
Nunzia si solleva mostrando il suo metro e ottanta di grasso e due fessure scure al posto degli occhi.
“Che c’è?”
“Il dottor House è andato a casa, in sala due c’è una puttana forse…forse una violenza sessuale…non so”
Un sospiro aiuta il caffè a precipitare nella tazzina da bar che Nunzia avvicina subito alle labbra rosse.
“Nunzia come fai a berlo cosi bollente?”
In risposta due spalle larghe si sollevano per una frazione di secondo, mentre il caffè corre verso il suo destino.
“Dai andiamo…aspetta allora che prendo il kit…chiami tu la Lorenzi?”
“Faccio dopo”
Le due donne entrano in sala due, una stanza bianca occupata da un lettino,un armadio a vetri, una piccola scrivania e una finestra con vista su un parcheggio. Una donna con un impermeabile chiaro è seduta su una sedia in metallo nell’angolo accanto alla finestra. Fuori albeggia,  i lampioni del parcheggio tremolano e poi  si spengono. Le braccia serrate intorno al seno, le gambe chiuse, la testa piegata in avanti e il viso nascosto da una montagna di ricci non dicono nulla di buono.
“Buongiorno signora…io sono la dottoressa Malagodi… devo visitarla…adesso l’infermiera l’aiuta a spogliarsi…” Elena si siede alla scrivania  su cui poggia un modulo. Due gambe da lottatore di sumo portano velocemente Nunzia davanti alla donna seduta. Una grossa mano ingentilita da anelli che affondano nelle dita rotonde prende per un braccio la  donna riccia per invitarla ad alzarsi.
La donna con l’impermeabile si anima improvvisamente, si scrolla la mano di dosso e scatta indietro verso il muro. Un viso bellissimo mostra due occhi  scuri, grandi e arrossati, due occhi allungati da felino, e come un felino ruggisce.
 “NON MI TOCCHI!”
 Nunzia ed Elena si aspettavano una bella ragazza, una puttana, ma quella era una leonessa bellissima ed intensa, elegante. Se era una puttana era sicuramente costosa. Nell’aria aleggia un afrore stanco con una nota dolciastra di profumo: è l’odore della donna che copre quello di disinfettante della stanza che si riempie della sua presenza.
Nunzia è la prima che si riprende dall’esplosione di bellezza e si avvicina minacciosa  “Oh senti! Devi spogliarti ! Muoviti!”
Elena le appare accanto, le mani sollevate con i palmi aperti.
“Calma, calma! Nunzia calma…su signora da brava…”.
La dottoressa si avvicina alla donna che serra le braccia al petto. Una voce diversa da un attimo prima ferma Elena. “Non toccatemi ho detto…sono anche io un medico.”

Tuesday, November 9, 2010

ARCANGELO

Padre Marcello è un abitudinario. Si alza alle quattro del mattino, prega, esce a fare una passeggiata per il quartiere del Sacro Cuore, il quartiere della sua parrocchia e non c’è neve o pioggia che lo possano distogliere dal suo intento. Il rumore leggero dei suoi sandali sorveglia le strade, attraversa le tapparelle chiuse, tranquillizza e ammonisce “io sono qui, ci sono anche oggi”, sempre alla ricerca di ubriachi o drogati abbandonati per strada, in cerca di bisognosi d’aiuto. Più di una persona lo ha aspettato per strada per potergli parlare senza essere vista, per confessare peccati  che nel buio antelucano si possono bisbigliare o per dare informazioni o pettegolezzi su famiglie in difficoltà o madri e padri fedifraghi. Lui, povero vecchio energico, con il suo saio francescano ,ascolta ogni bisbiglio, ogni rantolo, ogni bisogno e come una rete raccoglie con i suoi sorrisi e le sue carezze, le molliche di tante vite perché non vadano sprecate. Un giorno ha raccolto anche un paio di sprangate, un’ altra volta una coltellata alla coscia per imparare a non interessarsi di questioni “non di sua pertinenza” come ha scritto un giornale locale. Gli è rimasta una cicatrice che è andata ad arricchire la sua personale  collezione  di tagli e fori risalenti ai tempi in cui era un paracadutista della Folgore. Da quando Padre Marcello pattuglia, il quartiere Sacro Cuore è un posto più sicuro e ormai sono dieci anni. Anche stamattina Padre Marcello attraversa la piazzetta silenziosa,  sale la bianca scalinata della vecchia chiesa ed entra dal portone principale che resta aperto di notte. L’aria all’interno della grande chiesa è meno fredda del solito. Due piccole luci sull’altare maggiore rischiarano le grandi  colonne che reggono una cupola buia li in alto. Su una panca al centro della navata dorme Domenico, un ragazzo slavo che non ricorda più il suo nome e che Padre Marcello ritrovò mezzo assiderato per strada all’alba di una domenica. Gli passa accanto, lo sente respirare leggero e gli carezza la testa come avrebbe voluto fare a suo figlio, se mai ne avesse avuto uno. La puntura di spillo nel petto viene subito anestetizzata dal pensiero di avere centinaia e centinaia di figli, di essere l’uomo più prolifico del mondo e la sua barbetta bianca viene smossa dall’arrivo di un sorriso. Padre Marcello da un’occhiata in giro, saluta i santi addormentati sulle vetrate e poi va a sedersi in un vecchio confessionale scuro e massiccio per riposarsi un po’. Seduto in quel buio sereno unisce le mani in grembo, la sinistra sotto la destra con il palmo rivolto in alto, i pollici che si toccano a formare un mudra, il respiro rallenta e il pensiero si focalizza sul chackra della radice, il contatto con la terra, con la sua energia vitale, antica. Padre Marcello ha imparato a considerare il proprio corpo e la propria anima come parte dell’universo e si lascia assorbire dal mondo ascoltandolo, senza paura, senza vergogna, nella quiete di un anima che ha conosciuto molto e sofferto ancora di più. Padre Marcello medita come ha imparato secoli fa in paesi lontani.
“Padre” Improvvisamente la sua mente torna carne, risente il peso del suo corpo, il battito accelerato del suo cuore. Qualcuno da dietro la grata del confessionale lo ha chiamato . Forse Domenico. No, non è Domenico. “Si… chi c’è?”
“Padre…mi scusi, non volevo spaventarla…”
La voce da uomo è calma, forse un po’ impastata dal sonno o dalla stanchezza. L’ombra disegnata sulla grata ha due occhi scuri, neri e profondi.
“No figliolo, non mi hai spaventato forse mi sono assopito…sai, sono vecchio…ma tu di che hai bisogno?”
“Mi scusi padre, avevo bisogno di parlare con qualcuno”.
Padre Marcello ha sentito quella frase milioni di volte, e ha capito che uno dei nomi dell’Inferno è solitudine. Anni prima, molti anni prima rimase due giorni in una buca con i cadaveri di due suoi amici, ferito e in attesa di morire e in quei due giorni per non morire, parlò con i suoi amici morti, con un filo d’erba gialla, con suo padre morto anni prima, con il suo fucile, con la foto di una ragazza bionda, ed infine con Dio, che fu l’unico a rispondergli facendo atterrare un elicottero a poche centinaia di metri. Parlare lo aveva salvato, ora qualcuno aveva bisogno di parlare forse per vivere. Poteva negarglielo?
“Vuoi dirmi come ti chiami? Io sono padre Marcello…”
“Io sono Arcangelo”
“Arcangelo? E’ un nome inusuale…”
“E’ il mio nome”
“E quanti anni hai? Vivi qui vicino? Dimmi di te…”
“Non so quanti anni ho e vengo da qui vicino”
La mano destra di Padre Marcello, ha lasciato l’altra in grembo e si è appoggiata sulle labbra quasi ad impedire di chiedere spiegazioni. Dall’altra parte della grata metallica c’è qualcuno che si è perso, non sa quanti anni ha, non sa o non vuole dire da dove arriva. Forse è un pazzo o forse un’ anima che ha solo bisogno di una mano che la tiri fuori dalla disperazione. Tacere ed ascoltare, Dio non fa proprio questo spesso e volentieri?
“Di cosa vuoi parlarmi, Arcangelo? Io sono qui, ti ascolto e anche se non vuoi confessarti quello che dirai resterà tra me e te. E’ una promessa. Stai tranquillo e parlami.”
“Padre Marcello, io ho bisogno di sapere alcune cose…io ho bisogno di sapere come si fa ad amare…e ad essere amati”
Padre Marcello sorride nel buio del confessionale, chiude gli occhi per un attimo e rivede la ragazza bionda della foto. Forse Arcangelo è un ferito della guerra dell’amore carnale, una donna gli ha magari prima fatto scoprire di avere un cuore e poi glielo ha stappato dal  petto. Succede, succede a tutti, ma nella maggior parte dei casi non si tratta di  ferite mortali. Il frate si accomoda meglio sulla panca fredda e si avvicina di più alla grata, sospira lentamente.
“Caro Arcangelo, bella domanda…che vuoi che ti dica? Amare è allo stesso tempo molto facile e molto difficile, ma è un qualcosa che ci appartiene, è …innato…istintivo… come la madre che ama il figlio o viceversa…o un uomo che ama una donna…”
“Cosa vuol dire innato, istintivo?”
“Mha…innato…cioè che è dentro di noi , nasce con noi , ci appartiene…è qualcosa per cui noi siamo nati, è qualcosa per cui noi siamo fatti…”
“Vuol dire che siamo programmati ad amare?”
“Si… in un certo senso si, amare, amare gli altri, amare Dio, il nostro Creatore”
“Io amo il mio Creatore”
“Ecco vedi che mi capisci? Poi bisogna amare anche gli altri esseri di questo universo, le altre persone, le altre creature viventi”
“Tutte le altre creature viventi ?”
“Si, anche se a volte è difficile, ma bisogna cercare di amare, amare, amare, senza paura di essere feriti…ama e fa ciò che vuoi “
“Padre io voglio amare”
“Bene allora fallo, serenamente e con semplicità, cosi come sei, Arcangelo, aiuta chi ha bisogno, parla con gli altri, fermati  e guarda il mondo che hai intorno…le stelle, le nubi, gli alberi, gli altri”
Il frate percepisce il disagio mentale dell’uomo della grata, Arcangelo e allo stesso tempo avverte un dolore senza nome, una fame d’amore e di vicinanza che spengono ogni allarme, ogni preoccupazione, ogni paura del vecchio paracadutista.  Percepisce il vuoto dietro quegli occhi scuri e affamati, un vuoto freddo che ha bisogno di un tentativo, almeno uno di colmarlo, non può tirarsi indietro.
“Ed essere amati? Cosi si fa ad essere amati?”
“Mha…quella è più una questione di fortuna, a volte, sai Arcangelo…ma, innanzitutto bisogna amare…poi il resto viene da se…esser ben disposti all’amore…cioè bisogna non pensare di non essere degni di essere amati, da una donna magari…poi c’è Dio che ci ama tutti, indipendentemente da ciò che siamo o facciamo,e lui c’è sempre…sempre!”
“Padre Marcello, Dio c’è sempre? Ci controlla?”
“No, Arcangelo…Dio non ci controlla, Dio ci ama, è al nostro fianco, nel nostro cuore, ci aiuta a compiere il bene e a non compiere il male…”
“Il male? Cos’è il male?”
“Arcangelo…il male è molte cose, cerca di capire… di seguirmi…il male è ad esempio uccidere…togliere la vita ad un altro essere umano…”
“Padre io uccido, allora compio il male. Perchè allora Dio non me lo impedisce?”
Gli occhi di Padre Marcello sono diventati due fessure mentre la testa si è allontanata istintivamente dalla grata. Le mani, prima giunte a cercare di trovare le parole adatte per un anima semplice e smarrita, ora si stringono tra loro con forza.
Chi è Arcangelo? Da dove viene? Il francescano ha esperienza di uomini di ogni razza e tipo e peccato.  Arcangelo non sembra un pazzo pericoloso, sente che non lo è , la sua voce non ha mai cambiato intonazione, è sempre rimasta calma e sincera, la voce di un uomo che ha bisogno di risposte ed amore. Padre Marcello non ha paura per se, al massimo  è preoccupato per Domenico che dorme sulla panca poco distante. La voce allora diventa ferma.
“Arcangelo cosa vuol dire che hai ucciso?”
“Io uccido perché questi sono gli ordini “
“Gli ordini di chi?”
“Questo è quello che io sono programmato a fare”
“Programmato da chi? Perché?”
La voce del vecchio frate sale di tono. Sente che il battito cardiaco accelera. Che mostro può programmare un uomo ad uccidere?
Domanda fatta, risposta arrivata. Padre Marcello si porta le mani al viso. Secoli fa anche lui era programmato per uccidere, in posti diversi, uomini diversi e ora ne rivede gli occhi che sperava di aver cancellato.
La voce ora è un rantolo “Arcangelo, perché? Perché?”
“Non lo so, Padre Marcello.”
“Signore perdonaci… perdonaci… perdona i nostri peccati…Arcangelo …prega con me, parlami…dimmi tutto figlio mio!”
“Non posso padre”
Il frate avverte un movimento dietro la grata, un’ ombra passa davanti al confessionale. L’istinto guida il francescano che si alza dalla panca in tempo per vedere l’ombra uscire dalla chiesa. Il vecchio corre più velocemente che può verso la porta della chiesa, la splanca e con gli occhi cerca la figura dell’uomo nella piazza vuota. Sparito. E’ rimasto solo un po’ di vento freddo che gli asciuga un sudore inaspettato dalle rughe. Padre Marcello rientra nella chiesa ancora buia sentendo la stanchezza di anni di cammino coagulata in mezzo al petto. Domenico è ancora li che dorme, ora russa leggermente. Il frate si inginocchia sul pavimento freddo e prega. Il motore di un auto che passa lontana copre, con la sua voce rauca, la litania del frate, mentre una lacrima muore sul marmo.


Voci da Wikipedia:

 ARC. ANG. Elo
Androide per Ricerca e Combattimento, prodotto dall’Agenzia Nazionale Governativa, dotata di intelligenza artificiale di base di grado 3150 calcolata con il metodo Elo modificato.
Caratterizzato da aspetto umanoide, notevole potenza di fuoco, capacita di volo sino a 500 miglia e capacità di pensiero autonomo e di apprendimento rapido è stato utilizzato a partire dal 2018 in molte operazioni antiterrorismo e antisabotaggio in territori ostili.

Elo
Il sistema Elo è un metodo per calcolare la forza relativa di un giocatore di scacchi.

Monday, November 8, 2010

Anche questa è fatta


Alberi , canali, casali, risaie, binari. E’ andato tutto liscio. Alle 19.10 sarò puntualmente a Novara. Nessuno lo saprà mai. Grande invenzione il cellulare. Non ho mai pensato a certe eventualità.  Stamattina in treno per Alessandria solita nebbiolina, risaie tristi e alberi in fila indiana. Neanche un bel nebbione denso che stimoli la fantasia. Penso ai miei studenti del Liceo Artistico, grumi di brufoli e fumo di canne, nessun artista tra di loro. Durante la caduta libera squilla il telefonino. Numero riservato. Rispondo. La voce femminile mi travolge e la ricerco nell’archivio. “Ciao amore...ci vediamo alle 4 al bar di fronte all’Acquario…ma lo sai che ti amo!?” “Si, ma io…” “Dai amore non trovare scuse, su…scappo ciao, ciao…baci, baci…”. Un errore, uno stupido errore. Ho risentito quella voce per tutta la mattina nella mia testa e ho disegnato il suo volto.  All’una telefono a mia moglie. “Ho una riunione sino alle cinque, sarò a casa per le sette. I bambini li prendi tu? Ciao amore”. Il treno invece mi porta nella direzione opposta, tra montagne e gallerie, up and down sino al mare che ho sentito lì in fondo. Mi manca il mare. In pianura è tutto immobile, allineato per far soldi. Prova ad allineare il mare, a non naufragare. L’autobus mi scarica all’Acquario alle 15.50 tra le barche a vela ormeggiate. Entro nel bar e ordino un caffè. Sento la voce ad un paio di metri da me. I capelli castani lunghi, la figura minuta, delicata e allegra. Adesso mi alzo.  “Scusi, ho ricevuto io la sua telefonata, mi spiace…ma la sua voce è come la brezza di Settembre. Una voce di anni fa, sa com’è…”. Magari mi sbaglio, magari non è lei, qui è pieno di donne. Esce. Pago in fretta ed esco. E’ scomparsa. Guardo l’orologio, mi respiro tutto il mare e vado via.  Alberi , canali, casali, risaie, binari.

Finale


Il caffè aveva appena aperto e il cameriere aveva poggiato sul mio tavolino un posacenere di plastica bianca. Avevo ordinato un caffè e guardavo i rari passanti attraversare rapidi la piazzetta ancora fredda della notte appena trascorsa. L’odore del caffè arrivò tre metri prima del cameriere. Lo sorseggiai chiuso nel mio cappotto mentre le ombre grigie della piazzetta schiarivano. I rumori delle prime auto cacciavano il silenzio del barista seminascosto dal bancone. Forse per questo non ti sentii arrivare. Mi ritrovai le tue braccia intorno al petto e la tua voce sulla pelle. “Sono qui “. Indossavi i tuoi occhi  verdi e un cappotto color miele. Un piccolo sorriso mi tagliò le labbra e le tue dita fredde accarezzarono la ferita. Affondasti il viso nel mio collo mentre ti stringevo e il barista fece finta di non vedere due vecchi abbracciati nelle 6 di un mattino di febbraio.  Lui non vide sicuramente la crepa che si chiudeva nel mio petto quando l’aria fredda della piazzetta mi entrò negli occhi, e mi allontanai abbracciato con te verso i giorni per cui ero nato.

Friday, October 29, 2010

Ed è arrivata l'ora

Basta distrazioni, coraggio al lavoro. Torno al motivo fondante di questo blog. Era un pomeriggio di settembre e la mia vita, come quella di tutti noi, se ne fregava bellamente dei miei sforzi nell'orientare la prua delle mie situazioni verso un mare meno agitato. Macchè!!! E allora scappo! Dove? Tra le braccia di una escort (si una puttana) gratuita, la scittura. Al massimo ti lusinga con qualche pagina che somiglia a ciò che hai pensato di scrivere, ti fa pensare che potresti anche finire un libro, finalmente, dopo anni (ma certo scrivi pure decenni) di racconti, storie cominciate e mai finite (perchè tanto...), di poco tempo per scrivere perchè ti tocca vivere, di lotta con la paura di scrivere che ne soffoca il piacere. Cosi ho deciso di aprire un blog per forzarmi a finire un progetto di scrittura.  Il tutto un pò troppo drammatico, vero? Ma è un modo come un altro per metter ordine. Poi mi sono lasciato prendere la mano, perchè, come tutti quelli che ora leggono queste righe, io amo quella puttana. si l'ho detto, la amo, lo confesso. Mi fa star bene, mi fa parlare con l'uomo che che mi guarda allo specchio la mattina mentre mi rado, mi fa sentire l'odore dei fiori di plastica se necessario. Allora ricomincerò a scrivere di Pietraluce, di tre persone che si incontrano per caso in Giappone negli anni ottanta, si dividono e vivono tra vent'anni ricordando qualcosa che è accaduto, scoprendo il punto d'origine delle traiettorie delle loro vite e molto altro: le vere persone che vivono sotto le loro palpebre chiuse. Ok, va bene, ho detto (scritto) quello che il caffè di mezza mattina ha suggerito. Ad maiora
B

Thursday, October 28, 2010

Bologna sotto la pioggia (III out of III)


Respiro e penso a quel seme venuto da chissà dove mentre i vetri si appannano un po’ e io con loro.


 Eccolo. Sta parlando con qualcuno, un collega si direbbe. Gesticola molto, si vede che è abituato a spiegare davanti ad un pubblico, ad insegnare. Sposta la borsa di pelle da una mano all’altra continuamente. Ogni gesto è plateale, viene caricato di significato. Anche da questa distanza riesco a capire tutto. Ogni gesto é una frase. Qualcuno ha fatto un errore, ha sbagliato di grosso ed adesso sono fatti suoi, meglio, sono cazzi suoi, non è possibile sbagliare cosi, lo ha fatto intenzionalmente, ma se crede di fregarmi… la pagherà di sicuro.  Io me ne lavo le mani, fate voi.La testa dell'altro oscilla in un altalena di si e di no, ma il piccoletto evita di incrociare lo sguardo di Mortara. Lo disprezza, ma non può palesarlo. Mortara è potente e pericoloso. Adesso si salutano sorridendo e sono sicuro che si staranno augurando a vicenda una morte dolorosa. Sarà meglio muoversi prima che incontri qualcun’altro. Gli corro dietro zigzagando tra gli studenti che affollano il portico e che sembrano andare tutti  nella direzione opposta alla mia.“Professor Mortara... Professor Mortara, mi scusi...mi scusi...Professore...”Lui si volta rigido, infastidito, mi dà un occhiata dall’alto in basso e visto il taglio della mia giacca e la borsa fatta a mano nella mia mano sinistra pensa che sono forse degno di parlargli, forse appartengo al suo clan. “Professore mi scusi se la disturbo, sono Mattia Torre”.  Gli porgo la mano e lui di riflesso allunga la sua, tentando di ricordarsi dove mi abbia visto o abbia sentito il mio nome.  Sorrido per tranquillizzarlo. Mi stringe la mano rapidamente e senza forza.  “Guardi, sono stato incaricato di consegnarle ...scusi un attimo...” Apro la mia borsa e frugo all’interno rapidamente. Gli allungo una cartellina azzurra “...questa pratica da visionare”. Mortara apre la cartellina con sguardo interrogativo, legge le prime righe ed impallidisce. Amo questi momenti, tutto è stato predisposto ad arte ed ora il mio compito è facilissimo. Le pupille di Mortara sono dilatate nella penombra dei portici. La luce le attraversa e sulla sua retina ci sono io con una mano ancora nella borsa ed il mio sorriso per bene. Non sa cosa fare e non lo saprà mai. Estraggo la mia Beretta ben oliata e lucida e sparo due colpi al cuore da mezzo metro. Tra la quarta e la quinta costa sinistra si formano due macchie scure che si fondono in una sola. Il professor Mortara si inginocchia e per poco non mi cade addosso. Mi scanso di lato, qualcuno grida, qualche ragazza fugge, tutti guardano verso di me. Raccolgo immediatamente la cartellina azzurra ed estraggo il mio distintivo dalla borsa. Me lo aggancio ad un’asola della giacca ed aspetto. I ragazzi intorno hanno visto tutto, si sono fermati pietrificati intorno a me, ma adesso il mio distintivo e la pozza di sangue che si allarga li scacciano via. Solo un paio di loro sembrano più resistenti. Mi fissano. Io li fisso di rimando. Vinco io, loro abbassano lo sguardo e vanno via. Un tempo mi sarebbe stato più difficile, ma l’esperienza serve pur a qualcosa. Arrivano finalmente due carabinieri di corsa. Un minuto scarso, non male. Hanno entrambi le mani sulla pistola nella fondina aperta, poi vedono il distintivo e si rilassano. Il più giovane è più lento a capire, ma guardando l’altro allontana la mano dall’arma..“Buongiorno”“Buongiorno, favorisca i documenti prego...” Gli allungo il distintivo e la patente.“Signor ...Dottor Torre... e va bene che lei è un ispettore giudiziario, ma per la miseria, ci sono i silenziatori...lei mi mette in subbuglio tutta la zona a quest'ora poi...mi scusi sa...”“Si ha ragione, mi scusi ma il silenziatore mi si è rotto proprio stamattina...e non potevo rimandare... lei capisce…“Bugiardo. Questa è l’unica libertà che mi prendo nel mio lavoro, diciamo il mio tocco da artista, la mia firma. Mi piace il suono dello sparo che è assordante da vicino e a volte sembra quasi di poterlo vedere mentre si propaga nell’aria e raggiunge il soggetto contattato, il soggetto da rettificare, e poi gli altri intorno. In quel momento tutto si ferma ed esiste solo lo sparo, la punizione, la giustizia. Quasi una teofania.  Inutile spiegarlo al carabiniere. Lo vedo benissimo che non mi crede. L’angolo destro della sua bocca si piega leggermente mentre non mi guarda e mi allunga il distintivo.” Senta ...io devo farle comunque una multa per spari non autorizzati in luogo pubblico...lei capisce ...domani il mio superiore potrebbe contestarmi il fatto, con tanta gente...è pericoloso...” ed estrae un taccuino dalla tasca. Non contesto, la pagherò di tasca mia, non importa. Il più giovane si occupa del morto, gli ha preso il portafogli . “Collega, questo si chiamava Sergio Ersilio Mortara, che cazzo di nome ...e guarda quanti soldi aveva...”. Io ed il collega allunghiamo il collo. Nel portafogli ci sono almeno un migliaio di euro in biglietti di grosso taglio, forse più.  Il mio sguardo incontra quello del carabiniere più anziano “Strano...gente di quel tipo non gira mai con i contanti, usano solo carte di credito”. Ci fissiamo un attimo, poi il carabiniere annuisce con un rapido movimento della testa verso il compagno e i soldi arrivano nelle tasche del giovane quasi istantaneamente. Si chiama comunicazione non verbale. “Senta dottore, per questa volta  niente multa...però la prossima...” Le parole vengono coperte dalla sirena della autoambulanza. La gente intorno guarda un attimo e poi riprende la sua strada. Solo due vecchiette si sono fermate a pochi passi da noi. “Ma te pensa , proprio lui, una persona per bene...” “Hai ragione, hai ragione Elvira, che roba...da non credere...che roba...” Faccio firmare i soliti moduli per la rettificazione ai due carabinieri in qualità di testimoni, rimetto il tutto nella cartella e stringo loro la mano. Il carabiniere anziano mi indica con la testa la barella coperta dal lenzuolo “Senta dottore, per curiosità...ma che aveva fatto il professore là?”. Ormai siamo in confidenza, glielo posso anche dire “Era riuscito a non farsi condannare per commercio illecito di prostitute e bambini, il giudice era un suo amico...stesso ambiente, una partita a golf, una gita in Sardegna, qualche donnina allegra...e poi noi li abbiamo beccati, il giudice ha confessato ed il suo amico è stato condannato, solita storia”. Loro mi salutano militarmente e il più giovane mi regala un sorriso grato e conclude l’episodio con l’indice oscillante. ”Non si scappa eh...la legge è  uguale per tutti!”“Già,  non si scappa”.  E’ tutto finito, è ora di tornare a casa. Le vecchiette sono ancora lì, ma hanno riaperto gli ombrelli infastidite da una pioggerella leggera leggera, impalpabile. A noi due piaceva passeggiare sotto la pioggia. Bologna non è abbastanza grande per annacquare i ricordi. Arrivo all’auto e prima di aprirla aspetto un attimo. Spero che tu esca da quel cancello. Finirà prima o poi, finirà. Mi infilo in auto e torno a casa.  Magari sarai lì ad aspettarmi dietro i vetri.        Un sms mi vibra in tasca. Mi è appena arrivata una contestazione per spari senza silenziatore in luogo pubblico.

Tuesday, October 26, 2010

Bologna sotto la pioggia (II out of III)


L’Adriatico è di cattivo umore sotto la pioggia. L’auto attraversa la cittadina e si avvicina al casello autostradale. A quell’ora la A14 è affollatissima, Tir targati Foggia e auto di Ancona si inseguono verso Nord. Bolognesi e Riminesi scivolano senza fretta a Sud. L’auto grigia è potente, non le interessa giocare e pian piano comincia a contare i caselli: Fano, Pesaro-Urbino, Cattolica, Riccione, Rimini Sud, Rimini Nord. Ogni casello qualche amico, qualche ricordo, qualche gita o qualche lavoro. Tra i tergicristalli in azione arrivano Cesena e le barche di Cesenatico, Forlì e due pazzi furiosi con cui passare le serate in allegria, lo svincolo per Ravenna, Faenza e la sua puzza, Imola e tutte le volte che non sei riuscito ad andare al Gran Premio tanto è meglio in televisione, Castel San Pietro, poi fuori dall’autostrada a Bologna San Lazzaro, poi la tangenziale, viale Stalingrado, il ponte sulla ferrovia, poi a sinistra sui viali e dopo un pò al semaforo a destra su via Irnerio.
 Qui solo parcheggi a pagamento e piove ancora.  Qui accanto a via Filippo Re andrà bene lo stesso. Ti ricordi di tutte le volte che ti venivo a prendere qui ad Agraria per portarti a pranzo da qualche parte? Arrivavo in bici da Giurisprudenza e tu eri cosi felice quando mi vedevi. Una volta mi sono nascosto vicino al bar e ti ho vista parlare, ridere e scherzare con i tuoi amici. Ti toccavi sempre i capelli. Eri cosi bella, sei cosi bella. Mi era piaciuto vederti vivere senza di me. Lo so che lo dicono sempre tutti gli innamorati, lo so. Allora ero pazzo di te ed un po' lo sono anche ora. Mi piacerebbe rientrare li dentro e ritrovarti come allora, ma lo so che non sarà cosi. Però mi piacerebbe. Sarà meglio pensare al lavoro. Ridiamo un’occhiata alla pratica. Qui c’è una foto tessera della persona da contattare. Ha uno sguardo superbo, strafottente, sicuro. Occhi scuri, profondi, pelle curata. Una stempiatura troppo alta per non essere l’inizio della calvizie. Soldi ne deve avere molti. Il vestito è sicuramente di sartoria, la cravatta di seta, con un nodo piccolo un po' fuori moda. La pratica parla di proprietà in mezza Italia, intrallazzi in mezza Europa e viaggi in mezzo mondo.  E’ arrivato a metà dell’opera. Verso le tredici sarà in Via delle Belle Arti, proprio qui a 50 metri. E’ un abitudinario, andrà a pranzo nel solito posto. Non mi resta che aspettare. Nell’aria c’è un odore di terra bagnata e di qualcos’altro, qualche fiore del giardino d’agraria qui di fronte si deve essere dischiuso.

Staffetta dell'amicizia (grazie Sonia)

La cara Sonia (lalocandanellabrughiera.myblog.it) mi ha "nominato" in questa piccola Staffetta dell’Amicizia. Vincendo la mia timidezza e foraggiato dall'amicizia di Sonia partecipo allegramente rispondendo ad 8 domande in modo tale da condividere un pezzettino di me. Mi piace questo gioco anche perchè le domande sono un invito ad un viaggetto nella memoria. Alla fine di questo post io nominerò altri amici blogger e chi vorrà accogliere il mio invito dovrà inserire l’immagine qui sopra, rispondere alle domande e nominare altri, ma come dice Sonia "per "chi non vorrà, non importa. Alla locanda nulla viene mai imposto" e neanche nel mio piccolo blog.
1- Quando da piccoli vi veniva chiesto cosa volevate fare da grandi, cosa rispondevate?
Astronauta, mi affascinavano le immagini dalla Luna di signori in tuta bianca che saltellavano, poi mio padre mi regalò il piccolo chimico e decisi che sarei diventato uno scienziato. Fatto!

2- Quali erano i vostri cartoni animati preferiti?
Goldrake, guardavo Heidi con mia sorella piccola, ma piaceva anche a me, poi SuperGulp con Alan Ford e Nick Carter (e l'ultimo chiuda la porta!!!)

3- Quali erano i vostri giochi preferiti?
Soldatini dell'Atlantic in scala minuscola, grandi battaglie campali nel balcone di casa, poi pallone e pallone e pallone.

4- Qual è stato il vostro più bel compleanno e perchè?
Il prossimo

5- Quali sono le cose che volevate assolutamente fare e non avete ancora fatto?
Scalare a mani nude una parete di roccia, nuotare con i delfini, riprendere a viaggiare per mesi in paesi lontani vivendo come gli abitanti del luogo

6- Quale è stata la vostra prima passione sportiva o non?
Se rispondo calcio è scontato? Dopo ho scoperto il rugby e la vela vivendo all'estero

7- Qual è stato il vostro primo idolo musicale?
Queen, Queen, Queen poi Talk Talk (va be sono diversi) e amavo patsy kensit (eigth wonder), poi ho scoperto David Bowie e allora...

8- Qual è stata la cosa più bella chiesta (ed eventualmente ricevuta) a Babbo Natale, Gesu' Bambino, Santa Lucia?
Babbo Natale mi è debitore di un sacco di roba, ma ho ricevuto molto altro e facciamo pari e patta!



I blogger nominati sono:
laclarina (senzaerroridistumpa) mi piacciono gli argomenti di cui scrive e come ne scrive
carmine de cicco (carminedecicco) persona che segue con immenso coraggio e pazienza il mio blog
arturo (destinazione cuore stomao e cervello) mai banale
giardigno65 (zenzeroguru) bel blog really
Miss Moneypenny (missmoneypenny.myblog.it) deliziosa incoraggiatrice
strega Athena (/strega-athena.myblog.it/) dal primo mandi in poi non la si ferma più
manxuetagerb (manxuetagerb) molto promettente
botta e risposta (bottaerisposta.wordpress.com ) e me logodo proprio sto blog
Girasole (via000.wordpress.com) la poesia è poesia
  A presto
B


Bologna sotto la pioggia (I out of III)


Mi piace svegliarmi con la musica. La musica penetra pian piano nella mia mente, mi strappa lentamente dal sonno e dai sogni. La musica rischiara. Cosi mi alzo di buon umore.  Questo è importante. Me lo diceva sempre anche mia madre “Mattia, un sorriso all’alba e tutto andrà bene, credimi...”. Il buonumore dura però solo qualche minuto e solo perchè le sonate di Mozart per piano sono dei piccoli capolavori. Il vecchio Amadeus le aveva scritte per clavincembalo e poi sono state adattate per piano. Uno lavora tutta una vita e poi il frutto del tuo lavoro finisce  nelle mani di un altro che lo cambia, magari lo snatura. E’ un po' quello che mi è successo con te. Ho lavorato tanto per questa casa, per questa vita, poi è arrivato un altro  e tutto è finito. Eri il mio capolavoro. Ogni mattina la stessa storia. Tra un andante cantabile ed un allegretto della sonata n.10 K330 bevo il caffé e ti penso come se tu fossi qui seduta accanto a me . Lo so che adesso starai bevendo il caffé da un’ altra parte. Cristo non ci si abitua mai al dolore. Almeno c’è il lavoro. Poi oggi la giornata sarà particolarmente lunga, mi tocca arrivare a Bologna. Proprio a Bologna. Pazienza, è lavoro. Mi ricordo che non mi chiedevi mai nulla del mio lavoro. A te bastava che tornassi a casa. Ti piaceva prepararmi tutti i giorni la giacca e la cravatta sulla sedia dell’ingresso. Questo è l’aspetto del mio lavoro che non mi piace. Ogni giorno giacca e cravatta, mai in jeans e scarpe da ginnastica, mai sportivo o con la barba lunga, mai trasandato, sempre impeccabile, rassicurante ed efficiente. E’ la solita questione di immagine, di contatto con il pubblico, la gente.  Il dirigente di zona me lo ha sempre spiegato chiaramente, fasciato nel suo bel doppiopetto grigio, con le sue scarpe inglesi, e senza l’ombra di un contropelo fatto male o di un taglio sulla faccia lucida di cremine antirughe: “La gente deve immediatamente fidarsi di lei Donati, subito, alla prima occhiata. Si ricordi che lei non é più un uomo, ma un simbolo e i simboli sono sempre impeccabili. Gli uomini no, ma i simboli si!”.
“La gente è cogliona, credimi...” mi diceva il mio maestro, il Dottor Mauro Bartoli da Sora, un ciccione dalla faccia buona che mi ha svelato i misteri della professione con la sua ironia amara. Adesso è in pensione, coltiva rose e ha sposato una filippina di 25 anni. In tanti anni non ci siamo mai dati del tu eppure è stato uno dei miei migliori amici. Aveva ragione Bartoli.Va bene, vestiamoci. Meno male che ieri ho fatto il pieno. Porco Giuda, piove pure.
L’auto grigia esce lentamente dal cancello della villetta a due piani affacciata sul lungomare. La villetta è nuova, con due grandi vetrate ai lati della porta di ingresso, ma stranamente il giardino è pieno di grandi alberi, come se a villetta fosse stata costruita li in mezzo o fosse un buon restauro di un vecchia casa al mare, magari in stile liberty come ce ne sono tante da quelle parti. In realtà era una villetta degli anni 50.  Nonostante i lavori fatti si intuisce ancora  l’architettura originaria. Gli infissi sono bianchi come allora e rendono la facciata malinconica. L’auto si allontana rapidamente verso Nord.

Monday, October 25, 2010

Poche affezionate righe dal Nord (4 e basta)


Piovigginare in nero

Il Piemonte tra Torino e Cuneo è rilassante, dolce e silenzioso come un amore senza passione, ma ugualmente intenso. Poi nel silenzio, improvvisamente, esplode il rumore di un trattore che si avventura tra le vigne verticali o di qualche notizia che proprio non ti aspetti. In una casetta gialla dal tetto spiovente (qui ha senso, nevica, non come sulla litoranea in Puglia...) posata tra le colline dolcemente aspre di Pavese, vive una coppia come tante tra i 35 e i 40 anni, sposata e in attesa di un figlio/a. Una palese dimostrazione dell'esistenza di Dio.  Lui è un farmacista, affetto da sclerosi multipla, cammina a fatica, ma direi che è molto più reattivo di certi farmacisti di mia conoscenza, comunque lo hanno licenziato dalla farmacia in cui ha lavorato per più di dieci anni. Conoscete farmacie in crisi? Segnalatele al WWF. Lei vive una gravidanza a rischio ed essendo palesemente incinta (poteva fingersi obesa, però...ingenua, se fosse stata terrona...) è stata licenziata dopo quattro anni di lavoro in nero per una agenzia immobiliare. Conoscete agenzie immobiliari sul lastrico? Segnalatele a Green Peace. Una palese dimostrazione che Dio a volte si distrae. Però da queste parti se non c'è Dio qualcuno comunque li aiuterà. De Amicis vive ancora tra questi monti, esistono piccole comunità in cui, senza grandi esternazioni, ci si aiuta, si troverà una soluzione, è un caso al momento isolato. Poi ci sono le Istituzioni (non è una parolaccia, controllate pure). Tutto questo ottimismo non cancella ciò che è accaduto: lavoro nero, donna incita licenziata, uomo malato cronico a casa. Questo tris d'assi non è stato servito dalle nostre parti, nel Sud medioevale, dove ormai non fa notizia, ma nel Piemonte agiato, non ricco ma vivibile, dove settori trainanti dell'economia (credo si dica così) trattano i propri dipendenti come farebbe l'ultima ditta edile sub-sub-sub-appaltatrice con dei disperati senza permesso di soggiorno. Piemone, Italia. Pioviggina tra le colline piemontesi, sui tetti di tante piccole e medie aziende e agenzie e farmacie, pioviggina in nero of course, in realtà c'è il sole. Pioviggina in nero in Piemonte e mi sento un po' più a casa, purtroppo.

Sunday, October 24, 2010

Poche affezionate righe dal Nord (3)


Poco, pochissimo sodio
Nella mia città al confine tra Piemonte e Lombardia è possibile captare sia il segnale di Rai Tre Lombardia che quello di Rai Tre Piemonte. Così, con abile zapping posso sapere in contemporanea cosa accade sia a Milano che a Torino.  Di solito, però, indugio sul Tg Tre piemontese perché Torino è una città sorprendente e misteriosa pur avendo strade dritte e senza curve e poi perché l’accento dei giornalisti devoti a San Giovanni è molto più piacevole di quello dei devoti di Sant’Ambrogio. E poi il look è diverso. Le signore giornaliste piemontesi d.o.c. indugiano in abiti che mia mamma usava (forse, scusa mamma) negli anni  60’-70’, mentre i signori giornalisti si servono da barbieri che propongono ad un cinquantenne una pettinatura con riga al centro e tendine laterali…insomma, qualsiasi notizia è più dolce quando a riferirtela è gente cosi scanzonata e allegra. Qualche giorno fa la notizia dell’ennesima azienda manifatturiera con una cinquantina di operai che chiude i battenti. Tenete presente che negli ultimi quattro anni  questo tipo di notizia, insieme agli incidenti stradali, è la più frequente sulle sponde del Po. Quindi tutto nella norma. Invece no. Questa ditta produce etichette per le acque minerali, le etichette serissime che ti dicono se l’acqua che bevi ha una o due particelle di sodio o ti farà occupare (forse) più spesso la toilette o ti farà essere più bello dentro e fuori, insomma quell’insieme di ca…stupidaggini che servono a spendere soldi che si potrebbero risparmiare. Tutto qui? No. La ditta in questione è una parte sana di una azienda francese dichiarata fallita da un tribunale francese (bien sur) per cui, per questioni meramente burocratiche-alchemiche la cassa integrazione per i disgraziati italiani arriverà tra sei mesi perché la controparte (il fallito francese) non vuole mollare un euro e non vuole che il fallimento sia dichiarato da un tribunale italiano. E allora? Allora arrivano i nostri, gli enti locali (regione, provincia e comuni dell’area) che si impegnano a siglare un’ intesa e pagare cash la cassa integrazione. Cinquanta famiglie tirate fuori per i capelli da una brutta situazione e poi non è detto che la piccola azienda non possa risorgere dalle sue ceneri, una volta staccata dalla multinazionale. Due considerazioni di cui una antistorica, forse: 1) tu lavori molto e lavori bene, poi qualcuno a due -tremila chilometri sbaglia qualcosa e tu te ne vai a casa con le tue pezze a nascondere le pudenda (vi ricorda qualcosa?); 2) da noi, gli enti locali, messi essi stessi con le pezze nelle aree critiche (scusi Sig. Sindaco, ma it is a matter of  fact), avrebbero potuto aiutare qualcuno? La prossima volta che al supermercato controllerete dalla distanza di un centimetro il contenuto di sodio della vostra acquetta minerale  magari ci penserete. Magari non troverete più l’etichetta.

Friday, October 22, 2010

Poche affezionate righe dal Nord (2)


Foto by No(B)logo
Cerco un Centro Estivo permanente
Il mio centro estivo era situato in via Catania angolo Via Dante, poco prima del cavalcavia della Bestat. Si estendeva a Nord sino a Via Siracusa e ad Est sino a Via Solito. Via Catania è ancora una stretta via incastrata tra alti palazzi degli anni 60’ che creano una specie di ombroso canyon urbano in cui la luce estiva arrivava attenuata grandemente. Al termine del  periodo scolastico, all’inizio di Giugno, dopo aver ritirato finalmente la pagella prima grigia e poi azzurra con i voti segnati ancora a penna, io e mio fratello eravamo finalmente liberi. Liberi  di andare a scorazzare in pantaloncini corti con i nostri amici nel canyon, nel nostro centro estivo,  giocare con le biglie di vetro tra le buche dell’asfalto o a pallone o a nascondino o a prenderci a botte o a tirarci pietre con i ragazzini che arrivavano dalle case occupate della Bestat a minacciare il nostro territorio. Sempre attenti a non essere investiti da qualche auto. Insomma liberi, liberi sino all’ululato materno che ci richiamava a casa per il pranzo o la cena, o per quando ritornava nostro padre dall’Arsenale. Quelle giornate in realtà monotone ci hanno insegnato molto, quando al mare ci si andava solo il sabato e la domenica alla marina di Lizzano (che viaggi eterni!), quando c’era la tv dei ragazzi. Imparavamo tutto e non sapevamo niente. Qualche giorno fa  sono stato ufficialmente invitato da mia figlia di sei anni alla festa di chiusura del suo centro estivo. Ore 15.30, trentadue gradi umidi, inforco la bici e dal lavoro raggiungo il centro estivo che dista circa due chilometri. Una cooperativa di giovani insegnanti regge per quattro settimane l’urto frontale di una sessantina di bambini dai 4 ai 6 anni asserragliati in una scuola materna comunale che apre i battenti alle 7.15 e chiude alle 17.30 grazie ai collaboratori scolastici (bidelli) pagati dal comune. Iscrizione a Maggio e graduatoria. Tutto a pagamento, of course, ma il prezzo è ragionevole per avere in cambio giornate fatte di giochi, canti, risate, gavettoni e qualche lezioncina varia, in un ambiente pulito e sicuro, in assenza di nonni lontani mille chilometri (fisicamente). Prezzo ragionevole per poter lavorare tranquilli come la maggior parte delle coppie che ho visto nel salone del centro estivo. Molti locali, qualche meridionale, pochissimi extracomunitari.  C’è anche un bambino egiziano con un grave handicap psicofisico con la sua brava maestra di sostegno. Penso al sollievo di quei genitori e ringrazio chi di dovere per averci evitato un dolore del genere. Poi penso che il sindaco della mia nuova città è leghista e ha la mia età (40 anni). Non si finisce mai di imparare. Inizia una piccola recita su Pinocchio, i bambini cantano“il Gatto e la Volpe” di Bennato. Dai disegni sulle pareti imparo che per mia figlia sono molto importanti il suo Nintendo e il suo criceto e rivedo me  e mio fratello con le nostre biglie di vetro.

Thursday, October 21, 2010

Poche affezionate righe dal Nord (1)

Ieri sera mi sono divertito molto con il film "Benvenuti al Sud" con Claudio Bisio. E allora faccio outing o quello che è: oui, je suis du sud, sono meridionale anche se vivo da 23 anni prima al Centro-Nord e poi al Nord. Molti stereotipi che ho visto narrati nel film mi sono familiari (da entrambe le parti) cosi come  mi è anche familiare (per fortuna) l'amicizia  profonda che si instaura tra persone di radici diversissime, ma che sanno aprire cuore e cervello (e stomaco too). Qualche anno fa ho scritto brevi articoli, in realtà lettere, per un giornale locale della mia città natale, per far conoscere alcune esperienze di vita del NORD ai terruncielli. Ne sono venuti fuori degli schizzi semiseri che vi propongo. Spero vi possano piacere.


Strisce pedonali mutanti.
Devo arrivare in tempo per riprendere mia figlia da casa della tata. Come sempre sono in ritardo. Minuti di ritardo uguale soldi in più da pagare. Accelero. Poi mi suona il cellulare. Che è nella borsa da lavoro e non in tasca come di solito. Cerco un posto per accostare. Non crediate che lo faccia per la sicurezza. Ho il bluetooth, ma non lo uso mai. Vi dirò di più,  mi autodenuncio, parlo al cellulare mentre guido, come l’80% di quelli che conosco, e non sono meridionali anarchici ed incivili come me. Il problema è che non posso raggiungere la borsa guidando, questione di geometria euclidea. Spazio libero vicino all’ospedale, accosto in scioltezza,  quattro frecce e via alla ricerca del sacro cell. Trovato!  Pigio un tasto qualsiasi per rispondere e…qualcuno batte violentemente sul finestrino dal lato passeggero, quello verso il marciapiede. Le coronarie sono in ottima salute e quindi ho solo il tempo per cominciare ad arrabbiarmi. Un signore intorno alla settantina con panama bianco e bastone si agita muto. Almeno io non sento cosa dice, so solo che minaccia di colpire la mia auto col bastone e non mi piace. Leggo dalle sue labbra la parola “strisce”.  Mi dimentico del cellulare e come ogni maschio italico spengo il motore e scendo inferocito dall’auto. Il vecchietto ora ha il sonoro, un sonoro calabrese aspirato e agitandosi al limite dell’ictus mi urla: “Non si parcheggggia sulle strisceee!!!” “Ma che strisce?!” penso. Poi guardo per terra e il baratro del peccato mi si spalanca sotto i piedi: si, mea culpa, ho parcheggiato sulle strisce per qualche secondo, giuro, non lo farò mai più! Cerco di spiegare il dramma interiore che vivo, ma il vecchietto riparte sempre più agitato “Non si parcheggggia sulle strisceee!!!”. Delle persone rallentano il passo incuriosite. Comincio a sentirmi in imbarazzo, anche se ho l’aria della persona per bene, rasato e in giacca e cravatta, mi guardano come se fossi un punk-rom-accattone-extracomunitario-drogato. E reagisco alzando la voce: “E allora…la finiamo?  E che modi … Esagerato…un attimo e vado via!!!”. Un vero signore. Il vecchietto inforca gli occhiali e ricomincia “Non si parcheggggia sulle strisceee!!!” e aggiunge estraendo il suo cellulare “ora chiamo i carabinieri…”. Da vero signore gli ho detto cosa potesse farne del cellulare che aveva in mano e sono risalito in auto andando via. Il mio cellulare invece parlava con accento siculo. La tata era in linea “Prrrooontooo! Prrrooontoooo!” Dimmi Rosetta, che c’è? ”A casa sono con la bambina…”. Meno male, tanto casino per niente. Much ado about nothing. Tolgo le quattro frecce e ripenso al vecchio calabrese in panama. Ma che voleva? Perché proprio a me? Un uomo cresciuto come me nel Sud pirata ha reagito cosi ad un parcheggio brevissimo sulle strisce pedonali. Perché? La sua indolenza, il suo lasciar fare, lasciar vivere meridionale si è trasformato in un rabbioso e grottesco rispetto talebano delle regole. Non si parcheggia sulle strisce, ma quella telefonata poteva essere la più importante della mia vita. In quel vecchio emigrante era cambiato, mutato invece il senso delle cose. “Non si parcheggggia sulle strisceee!!!”. La regola è più importante della persona. Da noi laggiù la persona è più importante perché le regole sono accessorie. Diventerò cosi anche io tra 30 anni? Intollerante? Possibile che non esista una via di mezzo, un compromesso, una tregua tra persone e regole? Intanto ricordate:“Non si parcheggggia sulle strisceee!!!”.

Tuesday, October 19, 2010

Racconto in tre puntate (in attesa di riprendere il libro) - TRE e fine

“Mastrantonio... Mastrantonio... sveglia! Svegliati, svegliati!!!”
La voce arriva nel bel mezzo di una tempesta in mare, con la barca che rolla come impazzita. La necessità di vomitare é bloccata dal pensiero che il vestito buono che indossa si potrebbe rovinare. “Ma che ci faccio in mezzo al mare col vestito buono? Sto sognando...si sto sognando... Oh cazzo, ma io stavo in commissariato! Mi devo svegliare, mi devo svegliare!” La luce della lampada da tavolo gli entra negli occhi e gli brucia ogni pensiero.
“Mastrantonio, che facciamo?  Dormiamo in servizio, eh!?”
Il commissario Bertolaso ha poggiato la sua voluminosa pancia sulla piccola scrivania e si risistema i pantaloni tirandoli dalla cintura “No, no commissario...  stavo finendo il rapporto sull’ospizio...” “Casa di riposo per vecchi babbioni vuoi dire...va bé...da quand’è che non dormi tu?” “Quasi quattro giorni. Sto finendo di preparare un esame e ho poco tempo”.
“Ercole, se continui cosi ti beccherai una pallottola o un colpo di coltello da qualche fottuto spacciatore e ti perderai pure la ragazza...” “Veramente non ce l’ho la ragazza...” “Ecco, vedi? Con il lavoro che fai a due lire al giorno voglio vedere  quella strafiga che si mette con te...”. Il commissario si ritira  su i pantaloni dalla vita ”...del resto fai bene a studiare, cosi te ne puoi andare via da qui e fare carriera. Bravo, bravo!”. La due pacche sulla spalla non sono molto convincenti, ma alle dieci di sera, in un commissariato quasi deserto, non è facile trovare di meglio. “Finiscimi il rapporto, su, che poi vai a dormire o a studiare, come preferisci, anche se io personalmente ti suggerisco una bella scopata che risolve molti problemi. Ciao!”. Il commissario Bertolaso, che tutti chiamano Big Ben per via della sua pancia esibita e della mania di guardare continuamente l’orologio, si allontana e ripensa alla bella signora Rinaldi, bionda come quella direttrice strabica. Il commissario guarda l’orologio e affretta il passo verso l’uscita. All’ispettore Mastrantonio non resta che tentare di mettere in fila gli avvenimenti del pomeriggio e provare a terminare il suo rapporto. Il cursore sullo schermo del computer lampeggia stanco e ipnotico, poi improvvisamente comincia a viaggiare. “Il ritrovamento della vedova Zaccheo e del signor...no, cavalier Musatti è avvenuto in circostanze fortuite nonostante il vasto dispiegamento di forze messo in campo all’uopo di ricondurre gli scomparsi in seno alla struttura sanitaria presso la quale erano precedentemente allocati. I colleghi della volante 15 hanno ricevuto una richiesta di intervento in zona “Acquario di Genova”...”
“Già, i colleghi sono intervenuti per un tentativo di rapina di un albanese clandestino e si sono ritrovati con una vecchietta che li ha aggrediti dicendo che il ragazzo non stava bene di testa,  che non voleva fare nessuna rapina. Poi i colleghi si sono accorti che la vecchietta era in pantofole e non aveva documenti.  Indecisi se andare in commissariato o in ospedale, li hanno portati tutti in commissariato con la vecchietta che parlava al suo amico Giorgione l’albanese e gli suggeriva di tagliare barba, capelli e unghie per trovare lavoro più facilmente. Alla fine,  la vecchietta e il cavaliere sono stati riportati alla casa di riposo. La vecchietta, incazzatissima, ci ha confessato che all’inizio era uscita per una passeggiata  chiarificatrice con il cavaliere e che poi aveva pensato di affogarlo al porto vecchio per la sua cupidigia, sì, ha detto proprio cupidigia. Alla fine il povero Giorgione, l’albanese, l’aveva distratta ed aveva finito con il cambiare idea. E giù lacrime, tutti a piangere! E io cosa scrivo nel rapporto: sequestro e tentato omicidio? Meno male che né la direttrice né i parenti del cavaliere hanno sporto denuncia. In fondo il vecchio rincoglionito e la vecchietta erano solo un po' disidratati....Ahh, basta!!! Non ne posso più di ste storie, non ne posso più!”. All’improvviso, ricordandosi del consiglio del commissario, Mastrantonio  tira fuori dal cassetto il suo manuale di Procedura Penale e cerca, sul retro della copertina, il numero della sua amica dai capelli rossi, quella ragazza di Giurisprudenza che gli passa sempre gli appunti e che non è bella, ma è simpatica  ed è piena di lentiggini e sorride sempre.

“Ciao Beatrice, sei tu? ...Scusa se telefono a quest’ora...no, non è successo nulla, è che mi chiedevo se magari, cosi per dire, ti piacerebbe andare a bere qualcosa...quando? Mmmhhh…pensavo… stasera, adesso...si lo so che domani sei in Facoltà...ah, sei già a letto...cosa leggi?...no, non l’ho letto, no ...e con l’esame martedì non riesco a leggere nemmeno l’ordine di servizio figurati...no, secondo me lo canno sicuramente, siii mi bocciano sicuro, non mi ricordo niente...devi ripassare anche tu?...io con chi ripasso?…con i miei colleghi? ma figurati...certo che mi piacerebbe ripassare con te, quando? ...adesso si certo, tanto non ho sonno, figurati abituato ai turni di notte...si mi ricordo dove abiti...arrivo, certo...porto una pizza, se hai fame...si certo, arrivo...margherita? Ben cotta?  Va bene. Ciao...”

Suor Maria Wanabe richiude la porta della camera 112 dopo aver controllato che la signora Diletta si sia addormentata. Il fruscio dei suoi passi si perde nel buio del corridoio e solo allora la signora Diletta si alza dal letto. La vecchietta, presa la foto del marito dal comodino, si va a sedere sulla poltrona davanti al balconcino. Culla in grembo la foto e la bacia. “Hai visto amore che bello spavento che gli ho fatto prendere? Sei contento? Ti voglio tanto bene Aurelio, te ne voglio ancora tanto e mi manchi. Buonanotte amore”.

Monday, October 18, 2010

Racconto in tre puntate (in attesa di riprendere il libro) - DUE e 3/4

“...tua. E’ stata colpa tua se poi non abbiamo avuto altri figli. Lui è rimasto disoccupato ed è cambiato. Non rideva più e non facevamo più all’amore. Lui prima era sempre allegro e pieno di vita, delle notti mi svegliava e mi addormentavo solo mezz’ora prima della sirena dei cantieri. Dopo quel dicembre il mio stipendio non bastava mai e poi hanno chiuso anche il mio reparto. Meno male che c’era il dottor Barzanti. Te lo ricordi il dottor Barzanti, vero? Era quello che curava i poveri, i pescatori, i muratori e si faceva pagare solo dai signori. A lui piacevano le navi e aveva una collezione di navi in bottiglia che gli costruiva mio marito e che lui poi regalava agli amici e ai nipotini. I miei figli hanno mangiato il pane delle navi in bottiglia per tanto tempo. Mio marito é cambiato perché non riuscivamo a vivere, qualcosa si è rotto nel suo orologio, qui dentro, non aveva più forza, non ci siamo più voluti bene. Tutto per colpa tua, bastardo...tu e i tuoi soldi, e adesso a che ti servono? Che ne fai adesso che hai bisogno che qualcuno ti faccia pisciare perché non ce la fai da solo?”.
La rabbia della donna spinge la sedia a rotelle sino al porto vecchio, verso l’Acquario. Le auto rallentano e frenano mentre attraversa la strada, poi la dimenticano nello spazio di un clacson. Una folla vomitata da autobus e auto li circonda e tra la gente che entra ed esce dall’Acquario si dirigono verso la Capitaneria di porto, invisibili a tutti tranne che a Irvhani. Si avvicinano a una panchina con dei tedeschi che prendono il sole. I ragazzi biondi a torso nudo le dicono qualcosa, ma la vecchietta sorride e non capisce. I ragazzi lasciano la panchina invitandola a gesti a sedersi. “Grazie, grazie, siete gentili, grazie, sono proprio stanca, grazie, ho camminato tanto e questo qua è pesante da portare, tanto pesante”. I tedeschi sorridono, rispondono con un ciao e si confondono con il resto dell’umanità.  La vecchietta indica un punto oltre le teste della folla. “Vedi quella palazzina marrone lì davanti, sul molo? Quelli sono i vecchi magazzini del cotone. All’ultimo piano c’è un museo, un bel museo. Ci sono andata con i miei nipotini a Natale. Ci sono alcuni modellini che ha fatto mio marito. Sono bellissimi e io mi sono messa a piangere quando li ho visti. Capisci vecchio bastardo? Mi sono messa a piangere davanti ai miei bambini!”. Una presenza al loro fianco richiama gli occhi lucidi di Diletta. Un ragazzo con barba e capelli lunghi e un paio di jeans sporchi la guarda. “Dammi i soldi vecchia!”. La voce della vecchia esce dura dalle labbra strette: “I soldi te li puoi scordare, cretino! Se mi metto a gridare qui, non fai in tempo a scappare che arrivano i carabinieri “. Gli occhi della vecchia si sono accesi come tanti anni fa, in cantiere. “Ho detto dammi i soldi o ti ammazzo!”. Da sotto la maglietta di Irvhani è apparso un lungo cacciavite. “Cretino, ma credi che una vecchia come me ha paura di morire? Tanto io sono sola e quello che dovevo fare l’ho fatto. Vedi questo qui? “e indica il vecchio che respira a fatica sulla sedia a rotelle, “questo ha un sacco di soldi e dovevo parlargli da sola da tanti anni. Adesso l’ho fatto, quindi posso pure morire, tanto soldi da darti non ne ho. Mia figlia non mi dà neanche mille lire per fare la carità !”. Il giovane non sa cosa fare con quel cacciavite in mano e qualcuno nella folla si è voltato a guardarlo.  In testa ha solo il buio e il freddo di una notte in mare. Si è ritrovato in acqua con suo fratello che non sapeva nuotare. Ha tentato di tirarlo a se, di dargli una mano, ma gli è scivolato via, aveva le mani bagnate e fredde, tanto fredde. L’ha chiamato, ha urlato il suo nome tante volte, anche dalla spiaggia poi piangendo è fuggito via e ora è lì. Ha un cacciavite in mano e niente dentro. Si copre il viso con la mano e le sue spalle cominciano a tremare nella luce calda di un pomeriggio d’estate a Genova, di fronte al mare. La vecchia allunga la mano verso la sua che stringe ancora il cacciavite. “Che hai adesso? Su vieni qua, siediti.” La vecchia lo tira dolcemente a se e batte sul legno della panchina per invitarlo a sedersi. Il giovane si siede, nonostante la barba non avrà neanche vent’anni. “Lo sai che tu mi ricordi un ragazzo di mia figlia Giulia, un bel ragazzo. Si chiamava Giorgione. Veramente il suo nome era Giorgio, ma gli amici lo chiamavano Giorgione per certi attributi, non so se mi spiego...” . Il ragazzo stringe ancora il cacciavite anche se lo ha dimenticato. Si tocca il petto dicendo “Il mio nome è Irvhani”. “E che significa?” “Irvhani! E’ un nome!” “Va bene, va bene non t’arrabbiare. Volevo sapere il significato in italiano. Ti spiace se ti chiamo Giorgione?  Gli somigli tanto, va bene ? E’ più facile” “Ma io mi chiamo Irvhani!”
“Fermo! Polizia! Metti giù quel cacciavite!”