Rat race

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Tuesday, January 25, 2011

Libeccio (VI)


L’Alfa  che sta parcheggiando nel cortile interno del carcere è rossa, senza un copricerchione e con qualche ammaccatura. Un poliziotto, sicuramente. Il Direttore del carcere aspetta da un’ora l’arrivo di un paio di visitatori per la Di Stefano.
L’auto rossa riflessa negli occhi del Direttore solletica i pensieri.
 “Avrei preferito che fosse arrivato un carro funebre o un’ ambulanza. Quella povera donna sta morendo, e se non è morta sotto interrogatorio in questi mesi è un miracolo. Bisogna essere molto freddi per fare il Direttore di un carcere come questo. Bisogna scordarsi di pensare e far finta di non essere vivo. La Di Stefano è stata un simbolo per molte persone in questi anni, una speranza. Basta, ci sono cose che non bisogna neanche pensare. Avrei voluto aiutarla. Magari questo avvocato potrà farlo, far sapere quello che è segreto. Basta cosi. Pensare queste cose è pericoloso, possono poi affiorare nelle parole e sarei finito.”
L’interfono squilla nell’ufficio del Direttore. “Dottore, è arrivato l’avvocato della Di Stefano con il Commissario Montroni…”
“Falli salire, li accompagno io”
L’avvocato e il poliziotto salgono delle scale strette e scure nell’ala degli uffici del carcere. Il commissario Montroni ha lasciato in custodia la sua pistola e si sente nudo. L’avvocato stringe il manico della sua borsa e cerca di non pensare. Ha freddo.  Il secondino che li scorta ha poca voglia di salire le scale, ha le spalle curve e trascina ai piedi lasciando una scia di tanfo di sudore che fa rimpiangere ai due il vento del cortile in cui hanno lasciato l’auto. Appena sceso dall’Alfa l’avvocato ha sollevato la testa e chiuso gli occhi per annusare l’aria. Il commissario se ne è accorto: “Qualcosa non va?”
“Niente…sta arrivando una libecciata, si sente nell’aria.” Il Commissario ha guardato il cielo azzurro con nuvole alte e stracciate e ha pensato di non aver mai visto un avvocato annusare l’aria come un cane da tartufi o un pescatore. Che strano il mondo! Non sa esattamente perché, ma quello spilungone ben vestito comincia a sembrargli più accettabile come compagno in una assurda mattinata di lavoro.
Il secondino bussa ad una porta chiara ed entra facendosi subito da parte. L’uomo in piedi accanto ad una scrivania chiara è il direttore. E’ un uomo non molto alto, olivastro e con dei capelli troppo scuri per la sua età. “Buongiorno, sono Antonio Iodice,  il direttore del carcere…vi attendevo…immagino che vogliate incontrare subito la nostra ospite?”
Strette di mano  rapide, sguardi rapidi, pensieri rapidi, quasi si avesse paura di dire altro, di pensare altro. Come ad esempio fa l’avvocato:
“La vostra ospite? Ospite? Che cazzo dice questo…”
“Prego vi faccio strada”. Il commissario e l’avvocato seguono la scia del dopobarba di marca usato con abbondanza forse per l’occasione e attraversano corridoi scuri e pozze di luce ferma. Il clangore di metallo incardinato li accompagna, ma nessuna voce li attira mentre scendono nelle viscere del carcere a cercare l’ultima porta dell’ultimo corridoio. L’avvocato sente di scivolare verso un qualcosa per cui non  è preparato e vorrebbe accanto qualcuno, un amico magari, ma accanto a se trova quel poliziotto ostile e davanti solo parole “absit iniura verbis, naturalmente…ma un delinquente è un delinquente…non pensate? E poi diciamolo…”. Il direttore riempie i corridoi di chiacchiere, sembra un bambino spaventato davanti ad una vaccinazione che parla allontanando il momento fatale dell’ago. Il terzetto svolta ad angolo retto in un nuovo corridoio, sezione femminile C, massima sicurezza, una sola cella, tre donne in uniforme sedute ad un tavolo. Una legge una rivista, un'altra sferruzza e l’ultima fuma guardando il soffitto. Gli strumenti di lavoro svaniscono cosi velocemente che il commissario non è sicuro di averli visti. La noia scivola via dai visi femminili mentre l’ultimo cancello cigola.

In quella cella in fondo al corridoio sono segregati i pensieri di Silvana che galleggiano toccando i muri sporchi, volano sul soffitto pieno di nidi di ragno e cadono sul letto sfatto su cui una piccola donna biondo-bianca è seduta con le gambe attaccate al corpo e le mani che accarezzano le lenzuola verdi con dei grandi papaveri disegnati sopra. I pensieri saltano verso la finestra con le sbarre e cercano di guardare fuori, ma fuori c’è solo un muro grigio, allora rientrano in cella e si siedono accanto alla donna.

“Se non mi muovo non sento male. Se non mi muovo va tutto bene. Passo il tempo seduta qui, spalle al muro e mi perdo dove nessuno può raggiungermi. Possono tenermi qui tutto il tempo che vogliono, tanto io non ci sono. Ho perso la parte migliore di me e mi è rimasto il dolore, ma se sto ferma non lo sento. Seguo il cammino del raggio di sole che cola dalla finestrella in alto. E' il dito di Dio che disegna sulla mia anima. Disegna le strade che ho attraversato e che non mi sporcheranno più le suole delle scarpe. Sto ore ferma qui e vado lontanissimo, ma il dolore non mi segue. Se non mi muovo non soffro, mi dimentico di me. Non mi dimentico di te, però. Allora sento il dolore tutto insieme e sento di affogare, ma il segreto è non muoversi neanche in questi momenti, ferma, immobile. Quando l'inferno mi chiama, io sto ferma, non scappo e guardo nella luce dove solo io so muovermi. Non mi chiedo mai quando finirà, forse oggi, forse mai, non sento più il tempo, resto immobile e non sento dolore. Penso che oggi qualcuno arriverà e sei arrivato tu. Tu e tutto il dolore da cui fuggo.
Oggi qualcuno verrà e tutto finirà. Allora godiamoci questa pace e camminiamo per le strade di Dio”

L’ultima serratura fa sentire la sua voce e esausta si arrende aprendo la porta della cella di Silvana, la sua ultima tana.

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